Ugo Tognazzi, la commedia nera all’italiana

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Tra i massimi nomi del nostro cinema è stato il più provocatorio e pessimista ma con una vis comica invincibile. Appunti su un eroe del diritto alla satira

Intervistato da Enzo Biagi nel 1971 dichiara: “Il pubblico per noi è tutto ma mi piacerebbe tanto che avesse meno pigrizia, che reagisse, anche negativamente”. Tra i mostri sacri della commedia all’italiana, Ugo Tognazzi ha riservato al pubblico i colpi più spiazzanti. Con la sua fisonomia da uomo della strada, con la sua voce obliqua, dà vita alle maschere più grottesche del nostro cinema. Personaggi spesso inquietanti, a volte sinistri. Ai toni cupi affianca anche ruoli estremamente brillanti e una carriera televisiva che, negli anni ’50, lo porta a essere un campione della satira in coppia con Raimondo Vianello.

24 giugno 1959. Charles De Gaulle è in visita di stato in Italia. Il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi e l’ospite francese sono in piedi nel palco d’onore della Scala di Milano ad ascoltare gli inni nazionali. Qualcuno ha incautamente spostato la sedia dell’inquilino del Quirinale che, al momento di sedersi, precipita a terra. La sera successiva, Tognazzi e Vianello aprono il loro programma Uno, due, tre vicino a due sedie e un tavolo. Tognazzi manca il sedile e cade. Raimondo: “Ma chi ti credi di essere?”. Ugo: “Tutti possono cadere”. Vengono licenziati dalla Rai.

È visibile su internet una clip di Blitz, programma di Gianni Minà trasmesso da Rai3 nel 1982. Tognazzi è a tu per tu con Vianello e con uno dei registi simbolo della sua carriera, Marco Ferreri. Colpisce la pacatezza, quasi la noncuranza, con cui si parla della condanna a sei mesi di carcere al regista per l’”oscenità” del suo primo film con l’attore, L’ape regina (1963). Nell’Italia di mezzo secolo fa, Ugo è il volto per eccellenza di una satira che non fa sconti a nessuno, men che meno a se stessa.

tognazzi

Nasce a Cremona il 23 marzo 1922. Inizia adolescente ad esibirsi come comico e cantante nei locali e al dopolavoro ferroviario. Poco prima dei 18 anni viene chiamato, gratis, per uno spettacolo nel teatro nazionale della città. Siamo praticamente già in guerra e l’arte deve adattarsi. Le attrezzature e i costumi sono forniti da una ditta di pompe funebri: gli attori sono vestiti solo di nero e bianco, le scenografie sono viola e il legno delle quinte sarebbe destinato a tutt’altro uso. In un’atmosfera del genere, riescono anche a far ridere. Evidentemente, la stoffa c’è.

Dopo un impiego da ragioniere in un salumificio e il servizio militare nell’esercito della RSI, nel ‘45 riprende il lavoro di attore. Recita in teatri distrutti dai bombardamenti, spesso senza soffitto o con una sola parete rimasta in piedi. Il primo film è I cadetti di Guascogna (1950); nel ‘54 l’esordio in tv con Vianello. Una moltitudine di film di cassetta negli anni ’50 e ’60. Nel 1960 il primo ruolo della vita, quello del fascista Primo Arcovazzi ne Il federale di Luciano Salce, capace, nel suo fanatismo, di atti eroici come gettarsi sotto il fuoco di un aereo americano per salvare due bambini.

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Nel ’62 si sposta all’altro capo del Ventennio, con La marcia su Roma di Dino Risi: Tognazzi e Vittorio Gassman sono due ingenui reduci di guerra che credono nel programma sociale di Sansepolcro ma lo vedono sgretolarsi punto dopo punto, man mano che Mussolini si avvicina al potere. Un anno dopo la ditta Risi-Tognazzi-Gassman lascia nuovamente il segno con il fulminante I mostri: venti episodi su tipi umani poco o pochissimo raccomandabili, generati dall’Italia del Boom.

Dieci film con Marco Ferreri imprimono alla sua carriera la sterzata decisiva verso il grottesco immorale. Ha guai con la censura anche La donna scimmia (1964), storia di un imbroglione che sposa una donna dal corpo interamente ricoperto di peli per poterla esibire come fenomeno da baraccone. Lei muore di parto nel dare alla luce un bambino morto, uguale alla madre. Il marito assicura alla donna agonizzante che il figlio è nato normale e sanissimo; poi si fa consegnare i due cadaveri per continuare a esibirli imbalsamati.

Grande appassionato di cucina (apre La Tognazza a Velletri, attiva ancora oggi), gira con Ferreri anche uno dei suoi maggiori successi commerciali, La grande abbuffata (1973). Quattro amici benestanti di mezza età, “vegliati” da una donna conosciuta per caso, si chiudono per un fine settimana in una villa mangiando fino a morire, metafora di una società consumistica votata a schiantarsi sotto il proprio stesso benessere. Gli altri grandiosi protagonisti sono Marcello Mastroianni, Philippe Noiret, Michel Piccoli, Andrea Ferreòl.

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Si autodirige in cinque film, rigorosamente improntati alla satira lugubre, come Il fischio al naso (1967), in cui un industriale (ancora una volta la borghesia sazia e ormai priva di stimoli vitali) si ricovera per un banale fastidio e passa di reparto in reparto per non uscire più vivo dalla clinica. Nello stesso anno eredita il ruolo che doveva essere di Totò, morto dopo il primo giorno di riprese, ne Il padre di famiglia di Nanni Loy.

Nel ‘71 Dino Risi lo riporta all’invettiva politica con In nome del popolo italiano. Tognazzi è un magistrato di sinistra che incrimina per l’omicidio di una prostituta Vittorio Gassman, industriale corruttore e imbroglione, dal passato repubblichino; quando il giudice avrà in mano la prova della sua innocenza, la distruggerà. Il tema del cortocircuito tra vecchi e nuovi regimi torna con Vogliamo i colonnelli (1973) di Mario Monicelli, parodia del Golpe Borghese. Il film verrà accusato dalla critica militante di sminuire e banalizzare il pericolo delle “trame nere”.

La seconda parte della carriera è legata a due trilogie di grande successo. In Amici miei (1975) di Monicelli ha il suo personaggio forse più famoso in assoluto, quello del conte Raffaello Mascetti, nobile squattrinato che trova la forza di sopportare le amarezze della vita grazie all’incrollabile amicizia con i suoi compagni di divertimenti e “zingarate”. La saga nasce da un’idea di Pietro Germi, con Philippe Noiret, Gastone Moschin, Adolfo Celi e Duilio Del Prete (sostituito nei sequel da Renzo Montagnani). Con scene, gag e battute ormai entrate nell’immaginario collettivo, è uno dei migliori esempi della tarda commedia all’italiana. Ne Il vizietto (1978) di Edouard Molinaro, interpreta un attempato omosessuale che ha avuto un figlio da un “peccato di gioventù” e, per ingannare i futuri consuoceri ultra-tradizionalisti, cerca di far passare per una normalissima moglie il suo compagno Michel Serrault. Altro successo di pubblico, due seguiti meno incisivi e un remake hollywoodiano con Robin Williams nel 1996.

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Tifosissimo di calcio, milanista sfegatato, Tognazzi ha il suo ultimo ruolo importante con Ultimo minuto di Pupi Avati (1987), uno dei pochi film degni di nota che il nostro cinema abbia dedicato al mondo del pallone. È il direttore generale di un’imprecisata squadra di provincia del nord. Nella lotta per rimanere in serie A, l’anziano manager si accorgerà di aver sacrificato vita, affetti e famiglia per un mondo in cui la sola regola è l’ingratitudine.

Ugo Tognazzi muore prematuramente per un’emorragia cerebrale la notte del 27 ottobre 1990. Dopo una vita che, parole sue, avrebbe forse potuto essere più ordinata, lascia quattro figli avuti da tre compagne diverse che si difendono innegabilmente bene nel mondo del cinema; una lista di ricette di cucina che fanno la felicità di molti buongustai; una carriera fatta di ruoli memorabili ma soprattutto l’insegnamento di una generazione di attori improntata al vero anticonformismo e alla capacità di raccontare una realtà che è “al cinquanta per cento comica e al cinquanta per cento patetica”. “la parte sua – dice Raimondo imperturbabile indicando Ugo, sulla poltrona di Blitz – è patetica”.

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