#Iwant2Bfree: la voce delle minoranze

campagna #Iwant2Bfree

Rompere le catene del silenzio che imprigionano migliaia di persone appartenenti ad una minoranza: storia di una spregiudicata difesa della libertà rinominata #Iwant2Bfree.

“I want to break free”. Inizia così l’attacco di una tra le più celebri canzoni dei Queen, ode ad uno tra gli inviolabili diritti dell’essere umano: la libertà. Eppure ad oggi c’è chi vive costantemente nella paura di esprimere un’idea o un sentimento e, incoraggiato dalla società che sceglie, consapevolmente o meno, di rifugiarsi in un imperdonabile quanto omertoso silenzio, decide di rimanere nell’ombra, pena la tortura, se non peggio. In Uganda però, uno tra i molteplici paesi incriminati di violazione dei diritti umani, esistono minoranze che non si piegano a dettami insensati, provando a vivere “alla luce del sole”; così come esistono campagne volte alla sensibilizzazione di chi vive nelle proprie convinzioni e ancor più alla tutela di chi è in disparte: una tra queste prende il nome di #Iwant2Bfree.

“La libertà è innanzitutto il diritto alla disuguaglianza”.

#Iwant2bfree#Iwant2Bfree è la storia di un progetto nato dalla collaborazione tra l’organizzazione umanitaria “Soleterre-Strategie di pace ONLUS” , operante in Uganda dal 2011 al fine di garantire i diritti inviolabili degli individui nelle “terre sole”, e singoli cittadini o difensori dei diritti umani, africani e non, che in territorio ugandese lottano costantemente (e la maggior parte delle volte senza successo) contro le molteplici contraddizioni e ingiustizie che affliggono il paese. Nello specifico, la campagna di sensibilizzazione sorge dall’esigenza di dare voce alle dure condizioni di vita della minoranza LGBTI (acronimo di lesbian, gay, bisexual, transgender e intersex), costretta ad un’esistenza fatta di rifiuti ed alienazione a causa di un unico divieto, proibizionista quanto reticente: quello alla libertà di esprimere la propria identità, così come i propri sentimenti, a meno che non si voglia scontare un ergastolo in carcere.

I volti coperti e un cartellone con una scritta tra le mani: in questa campagna fatta di semplici ritratti fotografici che stanno già facendo il giro dei social network (coadiuvati dalla pubblicazione di un video documentario sulla condizione della comunità LGBTI in Uganda), gli occhi, segno primario dell’espressività e dell’empatia, cedono il posto alle parole schiette, evocative, totalizzanti, quasi volessero rimanere incise in modo permanente sulla pelle di chi le invoca:“#Iwant2Bfree not to hide myself” (voglio essere libero di non nascondermi), “#Iwant2Bfree to be accepted by my family” (voglio essere libero di essere accettato dalla mia famiglia) o “#Iwant2Bfree enjoy my private life” (voglio essere libero di godere della mia vita privata) recitano lapidarie le scritte imperiose su un cartello rosso, in un netto contrasto dualistico con il fondale nero, simbolo di una vita risucchiata da un vortice privo di felicità.

Quando perdiamo il diritto di essere differenti, perdiamo il privilegio di essere liberi.

In Uganda però, le discriminazioni sono all’ordine del giorno, e non intendono certo fermarsi a colpire una sola minoranza; le donne infatti, relegate ad una posizione quantomai secondaria (se non già totalmente schiavizzate), sono ben lontane dal poter conquistare il diritto alla libertà d’espressione di una propria idea o quello sacrosanto legato alla possibilità di decidere come poter vivere la propria vita, e questo lo sa bene chi sceglie di schierarsi al loro fianco iniziando a collaborare con Human Rights Defenders, associazione che permette ai singoli cittadini di diventare difensori di una minoranza, trasformandoli negli ideali portavoce di chi non ha diritto di replica e insegnandogli a lottare senza sosta ogni singolo giorno al fine di ottenere la tanto agognata giustizia.

Scardinare e decostruire la lunga catena di pregiudizi che non solo imprigiona le minoranze e le destituisce di ogni possibile accesso alla libertà, ma ancor più legittima ogni tipo di vessazione possibile nel nome di una cultura retrograda quanto spregevole e insensata: banale chimera nell’attesa che i paesi occidentali decidano di non “voltarsi dall’altra parte?”

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