#Bringbackourgirls: la rivendicazione dell’emancipazione

#Bringbackourgirls

Sono passati tre anni dal grido di sollevazione mondiale #Bringbackourgirls, una forma di protesta social(e) per le 200 studentesse di Chibok rapite da Boko Haram; il dissenso contro la brutalità non è abbastanza?

La libertà individuale, che sia d’espressione o d’opinione, ha dovuto lottare nei secoli per essere riconosciuta come diritto inviolabile e di conseguenza sancita legalmente (perlomeno in buona parte del mondo). In virtù di ciò non è una novità che sempre più spesso, a cominciare dalle lotte femministe degli anni ’60, la libertà si accompagni all’uguaglianza, in particolare di genere, sviluppando politiche di pari opportunità. Esistono però ad oggi paesi (uno tra questi è il Ciad) dove l’emancipazione non viene vista di buon occhio e il prezzo da pagare per il mantenimento di un establishment di tipo fortemente patriarcale è la vita stessa della donna; un prezzo alto, che ultimamente ha scosso perfino una società occidentale a volte volutamente omertosa, ma che nonostante tutto ha scelto 3 anni fa di sollevarsi al grido di #Bringbackourgirls.

La lotta all’emancipazione e l’ira funesta di Boko Haram.

E’ il 14 Aprile del 2014 nel Nord-Est della Nigeria quando un gruppo di estremisti islamici facenti capo all’organizzazione terroristica di Boko Haram decide di organizzare un rapimento di massa (oltre 200 ragazze tra i 16 e i 18 anni), una spedizione punitiva che potrebbe essere sottotitolata con “l’occidentalizzazione è un peccato mortale”. Le vittime del raid infatti sono tutte studentesse della scuola di Chibok, rimasta aperta per permettere alle ragazze di sostenere gli esami di fine anno, a differenza della maggior parte delle scuole del Paese che decidono di chiudere  proprio per paura di ripercussioni da parte dei terroristi, contrari in particolare all’istruzione femminile nel disegno globale di attuazione della Sharia.

Dopo le prime sollevazioni popolari (che hanno avuto perlomeno il merito di attirare l’attenzione momentanea su una delle più grandi crisi umanitarie del secolo) e l’indignazione pubblica che si esprime con forza al grido di battaglia social #Bringbackourgirls, tutto tace fino al 13 Ottobre 2016: 21 delle 219 ragazze sequestrate dai jihadisti di Boko Haram (inizialmente 276 ma alcune riescono a saltare dal camion in corsa) vengono liberate in uno scambio avvenuto con quattro guerriglieri delle milizie estremiste.

La crisi umanitaria del secolo.

Al netto della situazione, se sono fatti incontestabili la liberazione di una parte delle ragazze e l’impegno trasversale della comunità social con l’avvio di una campagna solidale (l’ashtag #Bringbackourgirls ha fatto il giro del mondo), è pur vero non solo che più di 150 vittime sono ancora ostaggi dei terroristi, ma che la crisi umanitaria innescatasi nel 2002, anno di fondazione del gruppo armato, sta continuando ad avere un’escalation senza precedenti, con il silenzio assenso della comunità politica internazionale.

Dallo scoppio del conflitto esploso nella regione del Lago Ciad (tra Camerun, Ciad, Niger e Nigeria) tra Boko Haram e le forze governative, il coinvolgimento diretto previsto è di circa 17 milioni di persone, per la maggior parte donne e bambini, di cui 7 milioni a rischio denutrizione; inoltre secondo Al Jazeera, nel Nord Est della Nigeria, circa 1 donna su 3 ha riportato di aver subito violenza sessuale, che sia da parte di Boko Haram, delle forze di sicurezza o di altri gruppi armati.

Da “#Bringbackourgirls” a “Silent Shame”.

secondo l’ultimo rapporto di Unicef, “Silent Shame: Bringing out the voices of children caught in the Lake Chad crisis”, ad essere utilizzati sempre più frequentemente negli attacchi suicidi nel conflitto del lago Ciad, con 27 nuovi episodi nei primi tre mesi del 2017, rispetto ai 9 dello stesso periodo lo scorso anno, sono sempre più ragazze e bambini. Dal 2014 sono stati utilizzati 117 bambini per portare a termine attacchi con bombe in luoghi pubblici in Nigeria, Ciad, Niger e Camerun.

Sempre secondo le interviste svolte dall’Unicef, molti dei bambini reclutati da Boko Haram hanno dichiarato di non parlare con nessuno della loro esperienza per paura sia di essere ostracizzati, sia di possibili rappresaglie violente da parte delle loro comunità; molti di loro perciò sono costretti a sopportare le violenze subite in silenzio, alienandosi da se stessi e da chi li circonda. Per non citare poi la carenza di finanziamenti a progetti che possano sostenere le vittime e alleviare la crisi umanitaria: lo scorso anno infatti l’appello dell’Unicef per il il bacino del lago Ciad è stato finanziato solo per il 40%, evidenziando una totale sottostima della gravità della crisi.

L’appello a non dimenticare.

Nonostante il pessimismo cosmico che in circostanze come questa invita alla resa incondizionata, a distanza di tre anni dal rapimento, una delle 276 ragazze, superstite grazie alla fuga dal camion in corsa, decide di parlare per chiedere alla comunità internazionale di continuare a lottare. SA’a, 21 anni e con una grande voglia di vivere, parla alla convention sull’educazione organizzata a Dubai dalla Varkey Foundation dell’incubo del rapimento e dell’immobilità delle istituzioni nel reagire alla violenza, ma anche di come per quanto i sogni possano cambiar forma, non debbano mai essere messi da parte, anche a costo della vita.

L’etimologia di Boko Haram è semplice da analizzare: prende vita da una “storpiatura” della parola inglese book, unita ad haram, che significa divieto; un nome che vorrebbe piegare l’emancipazione femminile con la violenza, ma che in realtà spinge la comunità delle donne africane a lottare con le unghie e con i denti per conquistare il sogno dell’indipendenza.

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