Spike Lee, il ritorno al cinema militante

Spike Lee, ritorno al cinema militante

Dopo un Oscar alla carriera e varie incursioni nel thriller e nell’horror, Spike Lee torna al cinema militante con Blackkklansman.

20 dicembre 1986, New York. Tre ragazzi di colore, Michael Griffith, Cedric Saniford e Timothy Grimes, dopo un guasto alla macchina entrano in una pizzeria del Queens per telefonare. Poco dopo stanno correndo per la strada, inseguiti da una folla di bianchi inferociti. Nella fuga precipitosa, Griffith, operaio 23enne, muore investito da un’auto. Nel bollettino di guerra degli episodi di razzismo documentati dai media, forse è quello che più indirizza l’affermato regista Spike Lee verso la versione definitiva della sua opera terza, Fa’ la cosa giusta.

Qualche anno prima

16 ottobre 1968, Olimpiadi di Città del Messico. Gli atleti neri Tommie Smith e John Carlos hanno appena fatto vincere agli USA l’Oro e il Bronzo nei 200 metri. Restano immobili sul podio, con il pugno chiuso alzato a mostrare il guanto del Black Power. L’immagine rimbalza sui teleschermi di tutto il pianeta. Davanti a uno, c’è l’11enne Shelton Jackson Lee, soprannominato Spike da sua madre. Dopo quella scena, il ragazzo affiancherà massicciamente allo sport e alla musica l’interesse per la politica.

“C’è un’infinità di domande. È una cosa di cui mi hanno accusato spesso: porre domande senza fornire risposte. Ma non ho mai pensato che il compito di un regista sia di avere tutte le risposte. Credo che scegliendo questo mestiere si scelga piuttosto il ruolo di provocatore: si pongono domande e, idealmente, per il modo stesso in cui sono poste, si stimola e si genera dibattito e dialogo”.

Questa l’etica del cinema militante secondo Spike Lee.

61 anni, nativo di Atlanta, capitale del profondo Sud, ma “naturalizzato” newyorkese, da quattro decenni Spike Lee è la voce dell’orgoglio nero sul grande schermo. Fin dagli inizi, come film-maker “contro” all’Università di New York alla fine degli anni ’70. Ricevendo l’Oscar alla carriera nel 2016, ha ringraziato ma ha anche sottolineato che i  neri non sono “ancora entrati nelle stanze dei bottoni” del cinema, con tanto di polemica frontale contro l’Academy per una platea di candidati alla statuetta composta da soli bianchi per il secondo anno di fila.

Oscar a parte, il 2016 per lui non poteva davvero concludersi peggio, con l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. E la nuova situazione politica sembra aver almeno in parte cambiato l’opinione di Spike Lee sul fatto che il regista debba solo porre domande.

Spike Lee, ritorno al cinema militante
Spike Lee al Tribeca Film Festival 2009 Oscar alla carriera 2016
credit: David Shankbone

Blackkklansman

Con Blackkklansman, nelle sale italiane dal 27 settembre, il regista sembra avere risposte chiare. Lee, che alle presidenziali di due anni fa aveva apertamente preso posizione a favore del candidato “socialista” Bernie Sanders, opta per l’invettiva politica.

Il film è l’incredibile storia vera di Ron Stallworth, negli anni ’70 unico detective di colore della polizia di Colorado Springs, che, nel novembre 1978, con una serie di ardite conversazioni telefoniche, riesce a infiltrarsi nel KuKluxKlan. Impiegando un collega bianco come controfigura per gli incontri di persona, Stallworth riuscirà addirittura a farsi proporre per il comando dell’organizzazione razzista per lo stato del Colorado.

Da studente, Spike Lee ha maturato la sua idea di cinema proprio come strumento di protesta contro il razzismo più o meno strisciante presente nelle istituzioni. Negli anni ’70, nel suo cortometraggio The Answer in cui contesta duramente Nascita di una Nazione di D.W. Griffith, sicuramente un capolavoro di tecnica cinematografica ma anche un plateale apologo razzista. La dura condanna verso il film di Griffith è presente anche in  Blackkklansman.

Spike Lee, la vita

Shelton Jackson “Spike” Lee nasce ad Atlanta, in Georgia, nel profondo Sud degli USA, il 20 marzo 1957. È il primo dei cinque figli di Bill Lee, musicista destinato ad accompagnare col suo contrabbasso le più grandi stelle del jazz, e di Jacquelyn Shelton, insegnante di Arte. La famiglia Lee arriva a Brooklyn nel 1962. A quell’epoca il quartiere è ancora prevalentemente bianco e Spike ricorderà sempre la grande lungimiranza della madre nel voler comprare la loro casa di Fort Greene, anziché vivere in affitto.

Nella cosmopolita New York la discriminazione è meno opprimente che nel resto del Paese, tuttavia Spike impara molto presto con quale realtà deve fare i conti. Nella sua biografia Questa è la mia storia e non ne cambio una virgola, scritta con Kaleem Aftab, Spike racconta di essere stato rifiutato con un pretesto dai boy scout di Cobble Hill: “Mio padre mi mise seduto e mi spiegò chiaramente come stavano le cose”.

A 14 anni lo appassiona molto la lettura dell’autobiografia di Malcolm X. È l’unico tra i suoi fratelli a non frequentare una scuola privata: va al Liceo pubblico John Dewey di Coney Island, una delle zone più povere della città. Con una casa di proprietà e una madre con un lavoro fisso, tra i suoi compagni si sente un privilegiato.

Primi passi

Nel 1975 Spike Lee entra al Morehouse College di Atlanta, polo d’eccellenza della cultura nera in America, fondato due anni dopo la Guerra civile, che annovera tra i suoi studenti illustri Martin Luther King. Scrive sul giornale studentesco Maroon Tiger e stringe amicizia con il suo futuro produttore Monty Ross. A New York, il 13 luglio 1977 filma i saccheggi e i disordini che si susseguono nel celebre black-out di 25 ore che paralizza la città e ne ricava un documentario. Nel 1978 si laurea in Comunicazioni di massa e inizia a seguire i corsi di cinema all’Università di New York. Ha ormai scelto la sua strada.

Il suo primo tentativo di girare un lungometraggio fallisce per difficoltà economiche. Tra i finanziatori, c’è la nonna materna Zimmie. The Messenger doveva essere la storia di una famiglia interrazziale di Brooklyn, con il marito, nero e sottomesso, che alla fine si ribella alla tirannica moglie bianca. Il copione ha forti risvolti autobiografici e polemici nei confronti del padre Bill che, dopo la morte della madre di Spike nel 1976, si è risposato molto presto con una donna, ovviamente bianca, con la quale il regista e i fratelli avranno sempre cattivi rapporti.

“40 Acres & a Mule”

Nel 1984 molte cose sono cambiate. Tre film, 48 ore, Una poltrona per due e il successo planetario di Beverly Hills Cop, hanno consacrato il trionfo di Eddie Murphy. In tv, sulla NBC spopola The Bill Cosby Show, in Italia I Robisnon, serie creata dal celebre comico e incentrata sulla vita di una famiglia di colore perfettamente integrata nella middle class newyorkese. Spike fonda la sua compagnia di produzione, la 40 Acres & a Mule Filmworks. Il nome allude alla promessa, fatta dopo la Guerra di secessione e mai mantenuta dal governo di Washington, di assegnare 40 acri di terra e un mulo a ogni schiavo liberato, a titolo di risarcimento per la disumanità subita.

Il suo primo lungometraggio ufficiale è Lola Darling. Seguono titoli come Aule turbolente e Fa’ la cosa giusta; e ancora le opere degli anni ’90 come Jungle Fever, Malcolm X, Clockers, Girl 6. Oggi, dopo le dolorose riflessioni storiche del nuovo millennio con La 25° ora Miracolo a Sant’Anna, e le incursioni nel thriller con Inside man e nell’horror con Il sangue di Cristo, il regista sembra essere tornato ai temi scottanti degli inizi.

11 aprile 1983, Los Angeles. 55° cerimonia degli Oscar. Louis Gossett Jr. viene premiato come Miglior attore non protagonista per Ufficiale e gentiluomo. Spike, documentarista di 26 anni impegnato a trovare i fondi per il suo primo vero film, inizia a correre urlando di gioia per tutta la casa. Quella serata può aprire a un maggior numero di afroamericani le porte dell’empireo del cinema. O forse no?

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