Il mondo può essere salvato dai ragazzini?

Una delle opere più attuali della scrittrice romana di cui da poco si è celebrato il centenario della nascita. Un’occasione per riflettere sulla capacità, propria dei grandi libri, di parlare al presente.

La letteratura, si sa, ha capacità profetiche. E non solo perché pagine ingiallite di secoli sono spesso capaci di anticipare modi di pensiero e modi di agire che ritornano, quasi intatti, nel tempo che segue, ma soprattutto perché le grandi opere – ossia le opere di un grande scrittore – riescono spesso a superare ingombranti, e a volte spaventose, barriere diacroniche e sono in grado di parlare con straordinaria freschezza a noi, e di noi. Questo è ancor più vero se si considerano le opere poetiche – contemplate in un’ accezione quanto mai ampia, andando oltre i generi letterari tradizionalmente e accademicamente intesi – che appartengono al secolo che più a noi è vicino, il Novecento. Al Novecento appartengono testi straordinari, ormai considerati dei veri e propri “classici”, capaci di rendere poesia anche le inquietudini più nascoste dell’uomo contemporaneo, come dimostrano i casi di un Pirandello o di Svevo. Uno colpisce adesso per attualità, brillantezza e, diciamolo, allegria. Quel testo, curiosamente poco studiato dalla critica letteraria rispetto ai ben più famosi Menzogna e sortilegio (1948) e La Storia (1974),  è Il mondo salvato dai ragazzini, volume einaudiano con il quale una straordinaria scrittrice romana, Elsa Morante, salutava e accoglieva il Sessantotto. Sfogliando le pagine, anche ad una rapida occhiata, colpisce l’euforia della ragazzina. Le futuristiche invenzioni che portano la Morante ad esulare dai rigidissimi canoni letterari consegnano al lettore una scrittura anarchica, che dimentica le coordinate spaziali tradizionalmente intese per giocare non solo con le forme letterarie (il testo è una mixtio di prosa e poesia) ma perfino con la struttura tipografica, invertendola, girandola, disegnandola. La scrittrice si diverte a giocare con la pagina scritta, in un esercizio letterario che però si rivela, a lettura ultimata, quanto mai alto, serissimo. Perché il libro prende le mosse da una morte – quella dell’amico Bill Morrow, pittore statunitense appartenente alla leggendaria Beat Generation – per chiudersi tuttavia con un inno alla vita, la vita che appartiene a loro, ai ragazzini. Si badi, però: l’adolescenza per la Morante sessantottesca esula dai tradizionali canoni cronologici (e ideologici) per configurarsi come una categoria dello spirito, dell’intelligenza, della spregiudicatezza,  un modo di guardare il mondo che può appartenere a tutti. I ragazzini sono certo poeti, filosofi, pittori, citati e apprezzati nel volume, ma essi si incarnano anche in un “pischelletto” di Testaccio. Loro sono – si cita testualmente – i “Felici Pochi” che guardano alla vita in maniera totale, e pur immersi nella realtà più avvizzita – ogni bellezza, d’altronde, contiene in sé un’intima minaccia – non si lasciano schiacciare da essa e ne esaltano anzi gli aspetti più brillanti, più luminosi. Ma i ragazzini sono soprattutto coloro che si danno in opposizione, per la scrittrice, agli “Infelici Molti”, a coloro che alla vita, alla società, alla democrazia, oppongono l’uso e l’abuso del potere, della violenza, della manipolazione intellettuale e morale. I potenti, i vecchi di spirito, nella superficialità di una massificata e tecnocratica società dei consumi, che appariva alla Morante atrocemente triste – e della quale noi avremmo vissuto i lasciti più estremi, come acutamente aveva profetizzato Pier Paolo Pasolini – si contendono denaro, egoismo e avidità, sordi alla bellezza, all’ascolto, cechi alla relazione, al dialogo, al confronto. Eppure la libertà alla fine appartiene ai “ragazzini”, destinati ad essere schiacciati, umiliati, diseredati da una società di padri incapaci di mantenerne e garantirne la vita: nel paradosso più estremo solo loro, alla fine, ne escono da vincitori. Libro forse scomodo nella verità esistenziale ad esso implicita, e tuttavia capace di far gioire chi alla categoria dei ragazzini crede di appartenere per temperamento e intelligenza: perché la speranza, che consente alla Morante di scrivere e di divertirsi immensamente nel farlo, rappresenta senz’altro l’invito più allegro a solcare le porte dell’intelletto, dello spirito critico, all’uso delle categorie più alte che appartengono, con immenso privilegio, all’animale umano di aristotelica memoria. La speranza sottesa a un libro di non facile lettura, ma che tuttavia può mettere d’accordo lettori amanti della poesia, del teatro e della letteratura futuristica, appare oggi quanto mai importante far propria. Se l’intelligenza indietreggia spaventata e incapace di fronte ad un mondo caduto nella caoticità nullificante dei molti che soffocano, con innumerevoli mezzi, lo spirito critico e l’unicità di chi dice io, l’invito è di non perdersi di vista, reagire con mezzi contrari, con voce che sia al contempo forte e leggera, ossia decisa e divertita, consapevole ed ironica. Solo allora, uscendo con passo di volpe dal chiacchiericcio imperante di un informe non sense che mortifica la potenza e le capacità morali e intellettuali, potremmo dire che, forse sì, il mondo può essere salvato dai ragazzini.

A cura di Claudia Messina.

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