Ritorno al futuro: un fulmine sugli anni ‘50

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Conoscete davvero tutto di Ritorno al futuro? Storia e retroscena di una delle saghe più fortunate degli ultimi 30 anni.

Molti blog hanno affilato le armi per stilare liste ed elaborare analisi su quanto il 2015 reale sarebbe stato simile a quello inventato, nel 1989, da Robert Zemeckis e Bob Gale in “Ritorno al futuro parte II”. Non tantissimo in effetti. Niente “volopattini” né tantomeno automobili volanti (ed è solo una fortuna), niente baristi-robot, vestiti auto-asciuganti, né “Lo squalo 19” nei cinema. Le videotelefonate sì, sono state inventate e hanno fatto anche in tempo a tramontare, perché totalmente inutili e scomodissime.

“Ritorno al futuro”, uno degli eventi cinematografici degli anni ’80, una delle saghe più fortunate nella storia, cadenzato dalla  monumentale colonna sonora di Alan Silvestri e dalle strepitose hits di Huey Lewis, non può essere considerato però solo un fortunatissimo esempio di commistione tra fantascienza e commedia. Il punto di forza del primo film non sono affatto gli effetti speciali, presenti solo in 30 inquadrature e affidati a uno studio alle prime armi. La sua comicità e la sua grande potenza narrativa nascono dalla capacità della storia di scherzare sempre su temi di una certa cupezza, talvolta sull’orlo del baratro.

Come molti film destinati alla leggenda, anche la gestazione di “Back to the future”, con l’adolescente Michael J. Fox che, con una macchina del tempo costruita dallo scienziato pazzo Christopher Lloyd, viaggia dal 1985 al 1955 e per poco non manda a monte l’incontro tra i suoi futuri genitori, non parte benissimo. Proprio le sfumature edipiche che serpeggiano nella sceneggiatura di Zemeckis e Gale entusiasmano molto poco, ad esempio, i produttori della Disney. In tutto, il copione collezionerà oltre 40 lettere di rifiuto da vari studios. Dovute anche allo scetticismo di Hollywood verso i film sui viaggi nel tempo, che non hanno mai sfondato al botteghino. Finchè, nel 1984, dopo 4 anni di porte in faccia, non si fa avanti un produttore esecutivo con una certa esperienza in progetti in apparenza disperati: Steven Spielberg.

Come protagonista, gli autori vogliono a tutti i costi Michael J. Fox, l’idolo del momento per i teen-ager, reduce dal successo di “Voglia di vincere”. L’impresa però sembra impossibile: l’attore è impegnato nelle riprese del telefilm “Casa Keaton” e conciliare i due impegni pare impensabile. Al ruolo di Marty approda, per le prime due settimane di riprese, Eric Stoltz. Ma la cosa non funziona proprio. Zemeckis, Gale e Spielberg stringono allora un accordo disperato con i produttori di “Casa Keaton”: Michael J. Fox sarà il protagonista di “Ritorno al futuro” ma potrà girare solo quando è libero dalle riprese del telefilm, cioè di notte e nei fine settimana. E naturalmente, qualunque problema dovesse nascere, sarà sempre la serie tv ad avere la priorità. Questo spiega anche la sovrabbondanza di scene notturne nel film, girato quasi tutto tra le 18 e le 6 del mattino (senza contare le scene diurne girate comunque di notte, sotto la potenza dei riflettori). L’impresa è ai limiti delle possibilità umane (soprattutto per l’attore, che praticamente non dormirà per tre mesi) ma viene realizzata. Ed il successo è storico.

Proprio in questa dimensione notturna, il film trova la chiave ideale per lanciare alcune provocazioni oggi innocue, trent’anni fa un po’ meno. Ad esempio, scoprire che i propri genitori nell’adolescenza non erano esattamente dei modelli di virtù. George e Lorraine McFly e i loro coetanei non sono gli studenti contestatori di “Animal House” che sfidano apertamente le istituzioni kennediane. Sono invece i teen-ager di “Porky’s”, che fingono tranquillamente di accettare l’etica di facciata dell’America di Eisenhower per poi consolarsi a colpi di esperienze pecorecce (fatto salvo l’abisso qualitativo che separa la serie trash di Bob Clark dal film di Landis e dalla trilogia di Zemeckis).

“E chi diavolo è John Kennedy?” si sente rispondere Marty da “suo nonno”, quando gli parla di JFK Avenue. La battuta non nasce downloadsoltanto dal cortocircuito temporale, ma ha un preciso significato storico. Hill Valley è l’America fatta di drive-in, milkshake e adolescenti che vanno a scuola con un macchinone a testa. Il Grande Paese che ha paura degli alieni (che potrebbero benissimo essere manovrati dai sovietici, e viceversa) e dove l’idea di un sindaco di colore provoca sarcastico disappunto. Nella prima stesura del copione, il viaggio nel tempo era legato ad un esperimento nucleare. Marty, arrivando dai suoi anni ’80 fatti di terrorismo arabo, musica punk, Mc Donald’s e graffiti sui muri, ci appare quasi come una versione moderna di “Un americano alla corte di Re Artù”.

A una trentina d’anni dalla sua realizzazione, in definitiva, una serie cult che non invecchia. Un grande esempio di fantascienza “analogica”, che preferisce la sceneggiatura agli effetti speciali. Grandi interpreti e grandi autori, in grado di mescolare, in un mix esilarante, Mark Twain e Clint Eastwood, l’H.G. Welles de “La macchina del tempo” e il B-movie di Ed Wood Jr, “Guerre stellari” e Chuck Berry.

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