Strage di Capaci

Il 23 maggio del 1992 un attentato mafioso, nel tratto di autostrada Capaci-Palermo, uccide il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta

La criminalità organizzata di stampo mafioso dalla metà degli anni Settanta riuscì ad ampliare il proprio raggio d’azione, arricchendosi a dismisura attraverso il controllo del traffico di stupefacenti, di armi, delle procedure degli appalti, attività che consentivano il riciclaggio di denaro sporco. Attraverso tali iniziative la mafia si dimostrò capace di intrecciare relazioni con il sistema politico in modo da avere la garanzia dell’impunità per i suoi membri. “Succursali” di Cosa nostra si erano organizzate nelle principali città italiane e anche in alcuni paesi europei. Sviluppandosi come organizzazione retta da un regolamento rigido, composta da membri che si caratterizzavano per la loro spietatezza e inserita in attività lucrative illecite, la mafia era riuscita a raggiungere una posizione di primo piano. La necessità di investire i profitti dati dalle attività illecite favorì i contatti tra Cosa nostra e il mondo della finanza, stravolgendo interi settori dell’economia.

Negli anni Ottanta Cosa nostra riuscì ad assassinare molte personalità che si erano impegnate nella lotta contro di essa tra cui il democristiano Piersanti Mattarella, il segretario regionale del PCI Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il giudice Rocco Chinnici.

Mentre l’inchiesta di Tangentopoli portava alla scoperto il sistema di corruzione legato al finanziamento illegale dei partiti, il 23 maggio 1992, un attentato lungo l’autostrada Capaci-Palermo nel tratto che collegava l’aeroporto alla città, uccise il magistrato Giovanni Falcone, direttore degli affari penali del Ministero della Giustizia, la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. I mafiosi che misero in atto l’attentato già da tempo seguivano i movimenti di quest’ultimo, capo della scorta di Falcone. Comunicando telefonicamente, diedero il segnale a Giovanni Brusca che fece esplodere i 400 kg di tritolo che erano stati posizionati nei pressi dello svincolo autostradale per Capaci.

Meno di due mesi dopo, il 19 luglio, il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta furono uccisi da un’autobomba a Palermo. L’uccisione dei magistrati palermitani era stata decisa da Cosa Nostra nel corso del 1991 in riunioni presiedute dal boss Salvatore Riina. Falcone e Borsellino erano stati in prima linea nella lotta alla mafia. Falcone era candidato a dirigere la superprocura antimafia, di recentissima istituzione, e, dopo la sua morte, si era fatto il nome di Borsellino per la stessa carica.

Secondo la tesi sostenuta da Giovanni Falcone, la mafia poteva essere definita come “uno Stato nello Stato” che aveva dato continuo impulso allo sviluppo di una subcultura basata sull’omertà che si stava allargando territorialmente e aveva intrecciato una fitta rete di rapporti con la criminalità internazionale rendendola ancora più potente. Il colpo accusato da quanti erano impegnati sul fronte antimafia fu durissimo, ma la mobilitazione dell’opinione pubblica seguita alle due stragi sollecitò le indagini al fine di mettere a nudo gli intrecci tra mafia e politica.

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