Luca Vecchi di The Pills: web artist a chi?

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Intervista a Luca Vecchi co-autore/regista/tuttofare della esilarante serie culto The Pills

“Chi ha coraggio di ridere, è padrone del mondo”, scriveva quel giovane favoloso interpretato da Elio Germano nel film di Martone, presentato a Venezia alla Mostra del Cinema appena conclusa. Un film diviso tra sdegnose critiche e magnifici elogi, sorte che tocca spesso a lavori investiti di enormi aspettative – in tal caso, tradite da un premio mancato – e che è la declinazione di un’impostazione “molto italiana” – per dirla con Stanis La Rochelle – di valutare qualsiasi prodotto umano, dall’arte alla politica.

Per ridere ci vuole coraggio, dicevamo, e tanto, soprattutto nell’era 2.0, traboccante di intrattenimento eppure abitata da profonde solitudini, carica di slanci ma anche mortificata da molte resistenze.

Ci vuole ancora più coraggio e anche una certa abilità, per far ridere o meglio divertire, nel senso etimologico di distrarre l’animo altrui dai pensieri quotidiani.

Ci si immagina il mondo dello spettacolo come un’oasi disseminata di pozze di tale coraggio, in cui la creatività viene incoraggiata dai mecenati, sostenuta dai produttori ed infine premiata dal pubblico. In cui il Vetusto sente esso stesso l’esigenza di lasciare spazio all’Inedito.

Ma la realtà è diversa. Nel nostro caso è “molto italiana”. Di tutto questo – o quasi – abbiamo parlato con Luca Vecchi, romano, co-autore/regista/tuttofare della esilarante serie culto The Pills – nata per Dude Magazine su Youtube e approdata su Stracult di Rai2, passando per Italia 1, Mediaset Italia 2 e Deejay Tv – nonché sceneggiatore di Andarevia, film distribuito da Rai Cinema su Cubovision, e Dylan Dog – Vittima degli eventi, episodio pilota che andrà in onda sul web ad ottobre, entrambi per la regia di Claudio Di Biagio.

Luca risponde alle mie domande svestendo i panni del personaggio caciarone e un po’ stralunato che lo ha reso popolare, conservandone però l’ironia, aggiungendo molto garbo ed un certo riserbo tipico di chi guadagna ogni metro del suo successo con molto lavoro e qualche sacrificio.

Domanda canonica: da dove nasce la passione per il cinema?

Mi ha cresciuto il televisore. All’inizio ho fagocitato qualsiasi tipo di contenuto, da bravo figlio della “Mtv Generation”, poi  con il tempo, sono diventato più selettivo. Però, fondamentalmente, da piccolo anziché guardare i classici della Disney, guardavo i film della Nuova Hollywood: Lucas, Spielberg, e tutti coloro che hanno rifondato Hollywood e hanno dato vita a quel cinema fantastico, come Verhoeven, Zemeckis, eccetera. E consumavo le cassette. Mentre gli altri bambini guardavano Biancaneve, io guardavo RoboCop.

Quando hai deciso che sarebbe stata la tua strada, e perché come regista/sceneggiatore?

Io volevo raccontare delle cose. Non è importante cosa, mi piace raccontare. La parte più figa è la messa in scena, ricreare determinate dinamiche e cristallizzarle tramite un supporto, qualunque esso sia, film o scrittura. Forse il cinema è lo strumento più completo, il linguaggio che usa è più coinvolgente, si serve di mille contributi: dalla musica, al montaggio, e via dicendo. Il teatro, per esempio, lo odio (ride). Gli attori sono molto affezionati al teatro, li galvanizza l’idea di “far succedere” la storia hic et nunc. Io voglio uno schermo gigante su cui proiettare quella storia da angolature diverse.

 Se non avessi studiato cinema, che avresti fatto?

Dovrei darti una risposta come quella di Rossellini quando è stato nominato commissario straordinario del Centro Sperimentale di Cinematografia: “il cinema non si insegna”. Non so, cosa avrei fatto? Sarei morto, non lo so.

Che vuol dire youtuber o web artist? È una figura a sé?

Web artist mi fa sentire tipo Marina Abramović (ride). Però forse è sbagliata anche l’accezione youtuber, perché youtuber è colui che usa un mezzo – YouTube è un social network – per stabilire dei contatti. Spesso e volentieri gli stessi video sono multimediali, si stabilisce un filo diretto tra chi li fa e chi ne fruisce. Quello che facciamo noi (con The Pills, ndr) è più tradizionale, cioè la creazione di un prodotto filmico di fiction, che forse sarebbe adatto ad un media più tradizionale quale la televisione. Uno youtuber, un videoblogger, stabilisce un vero e proprio rapporto con gli utenti; noi non usiamo YouTube come social network, per noi è un mezzo come un altro per diffondere il nostro lavoro. Lo abbiamo adottato come atteggiamento: non chiediamo che ci si iscriva al canale, o altro. Semplicemente se ti va, guardi il video. The Pills inizialmente doveva essere una valvola di sfogo, una palestra. Forse adesso è diventato un prodotto più articolato, più curato nei dettagli, ma comunque i mezzi sono sempre gli stessi.

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In tanti cominciano sul web e in tanti ci rimangono, convinti di essere “arrivati”. La web star non è una figura un po’ sopravvalutata? Al di là di alcuni personaggi interessanti, il web è popolato di molti vorreimanonposso.

Su Internet è molto labile il confine tra intrattenitore e fenomeno da baraccone. Molto spesso queste due definizioni collimano. Altre volte il personaggio è addirittura artificioso, un intrattenitore che passa per fenomeno da baraccone ma tu non riesci mai a capire se ci è o ci fa. Geniale. Luigi (Di Capua, autore di The Pills insieme a Luca Vecchi e Matteo Corradini, ndr) una volta ha detto che molto spesso le persone, dato che hanno la più svincolata e illimitata libertà di esprimersi, lo fanno senza pensare a quello che, effettivamente, stanno comunicando. Con la conseguenza che, in un calderone come Internet, si genera una quantità di contenuti smisurata, non basterebbe una vita per guardarli tutti. Forse ci vorrebbe semplicemente più responsabilizzazione nell’utilizzo di Internet. È colpa di un “analfabetismo digitale”, se così si può dire, forse dovrebbe essere addirittura insegnato nelle scuole, accanto all’educazione civica. Ci vorrebbe più consapevolezza del messaggio che si vuole comunicare e più giudizio nel modo in cui lo si fa.

The Pills attinge molto dalla “romanità” come stile comico, ma poco dal cinema romano (Sordi,Verdone, Brignano, e via discorrendo). Mi sembra che vi siano più influenze da serie americana.

Sicuramente le nostre fonti di ispirazione sono state più anglosassoni, in termini di atteggiamento, ma abbiamo cercato di includere anche la componente romanesca. È una comicità figlia di un meltin’pot culturale, è “figlia della globalizzazione”. E’ una fusione tra i Simpsons, South Park e… il Marchese del Grillo! Sicuramente l’ambizione c’è, come intrattenimento mancava un aggiornamento di questo tipo.

A proposito di serie tv. In un’intervista hai detto che spesso sono migliori dei film. Si può dire che li stiano sostituendo? Non celano una progressiva, generale, perdita di fantasia e/o profondità di espressione? Molte serie continuano all’infinito, piuttosto che terminare e lasciare spazio a nuovi soggetti.

luca vecchi fbQuello è un atteggiamento puramente americano, quando l’America capisce di avere una buona idea per le mani, che riesce a creare business, la spremono finché possono, non solo attraverso le serie ma anche attraverso i remake. Ciononostante, il serial è un’operazione interessante. Sarà che scrivere una serie è un lavoro molto più difficile: è più strutturata, l’arco narrativo è più lungo, bisogna inserire i giusti punti di interesse, di svolta, gli spazi… Si può immaginare come un algoritmo, deve intrattenere in modo matematico.Ed è per questo che non è affatto più superficiale. Se è ben fatta, una serie tv è molto più complessa di un film. A meno che non si allunghi il brodo: lì subentrano dinamiche dettate dall’industria. In ogni caso, il confronto dipende da innumerevoli fattori.

La tua fonte di ispirazione?

Spesso bisogna prendere le distanze da ciò da cui si trae ispirazione, perché si rischia di scimmiottarlo o di parodiarlo. Quindi lo si può utilizzare a patto che lo si sia metabolizzato a tal punto che è diventato un riflesso condizionato…

Spesso le citazioni che noi infiliamo nei video non andiamo a cercarle appositamente chissà dove, bensì vengono naturali dopo aver pensato a determinate dinamiche della vita reale. In altre parole, raccontando un evento della vita reale, parlandone, scherzandoci su, ti rendi conto che si tratta di un meccanismo narrativo comprovato, sparso indietro nel tempo, e che fa parte di una serie di eventi che si ripetono sempre allo stesso modo. Vogler, ne Il viaggio dell’eroe, crea un parallelismo tra il mito greco e le sue varie declinazioni, modelli assimilabili agli archetipi junghiani. Sono situazioni insite nell’essere umano, riemergono e lo coinvolgono quasi come un riflesso condizionato, appunto, ed è questa la loro forza. Ognuno può identificarsi, l’empatia è immediata. La fonte di ispirazione più grande sono le dinamiche tra le persone, situazioni della vita di tutti i giorni. Alcuni episodi di The Pills sono basati su fatti realmente accaduti.

Artisticamente, invece, un riferimento fra tutti? Saranno tantissimi, ma dovessi salvarne uno dalla fine del mondo?

Oddio, sono miliardi… Ogni volta mi viene in mente la risposta a questa domanda, mi dico “se mai dovessero chiedermelo, risponderei così”, poi, puntualmente, me la dimentico. Ci tengo a questa risposta, ma ci devo pensare.

Un italiano?.

Odio il cinema italiano, è spocchioso. Viviamo di antichi fasti, pensiamo ancora al Neorealismo… Basta…

Con chi ti piacerebbe lavorare?

… Oddio questa è un’altra di quelle domande… Con Edgar Wright, quello della Trilogia del Cornetto.

The Three Flavours Cornetto Trilogy

In altre occasioni hai detto che appena puoi “tagli la corda”, vai all’estero. Perché? Qual è la falla del sistema cinematografico italiano?

Il sistema italiano è un club esclusivo, ci lavorano sempre le stesse persone. Inoltre, come dicevo, ci nascondiamo dietro un dito, quello degli antichi fasti. Si sperimenta poco, esistono pochi generi in Italia. Un po’ perché non li sappiamo più fare, perché per molto tempo siamo stati fuori dal mercato. Pensiamo alle produzioni horror italiane… Negli anni Ottanta sono finite.

Non potrebbe essere semplicemente un mutamento nei gusti del pubblico? Dopotutto, forse, una gamma di generi cinematografici completa esiste solo in America.

Se tu vai in un posto e manca qualcosa, c’è un disservizio. Di conseguenza, quel posto diventa “non all’altezza”. In altri Paesi, non solo in America, la scelta si allarga, pensiamo all’Asia. In Italia la sperimentazione massima dell’ultimo periodo si è avuta con Gomorra – La serie, che riesce a rivestire perfettamente standard internazionali, l’hanno venduta in tutto il mondo. Quando riesci a coprire standard internazionali, vuol dire che sei al passo con i tempi. Ed è questo, che manca in Italia: essere al passo coi tempi.

Cosa sei disposto a fare, in termini di “compromessi artistici”, per questo lavoro? Non so, un cinepanettone?

Qualsiasi cosa. Al limite, lo firmo con uno pseudonimo… Anthony Dawson (ride).

Ritieni che il cosiddetto cinema indipendente possa nascondere un po’ di supponenza, a volte?

Diciamo che le cose sono due: un lavoro indipendente, quindi finanziato in proprio, o diventa un successo al botteghino – anche se è abbastanza difficile – oppure diventa culto – e in questo secondo caso non ci si fanno i soldi. Il culto è di nicchia, ma diventare culto significa comunque aver colpito qualcuno, avere un seguito, qualcuno a cui piaci e che parla di te. Resta il fatto che una produzione indipendente è totalmente svincolata da qualsiasi “controllo”, dunque consente di sperimentare. E sperimentare significa crescere, sia da un punto di vista artistico che professionale.

Cosa pensi di fenomeni come La Grande Bellezza di Sorrentino?

Penso che Sorrentino, avendo la possibilità, dovrebbe andare via, come Muccino o Garrone. Per quanto riguarda La Grande Bellezza, non mi è piaciuto. E’ troppo personale. In qualche modo bisogna andare incontro al pubblico, altrimenti significa che ti compiaci di te stesso.

Però ha vinto un Oscar…

Sì, perché racconta la parte di Roma che fa più gola agli Americani. Però, obiettivamente, è la parte di Roma che i romani non hanno mai visto, e tu glielo stai sbattendo in faccia, li stai prendendo in giro. Lui ci ha fatto vedere il privé, scorci di Roma che nella realtà non vedremo mai. Al di là di questo aspetto, il film non racconta nulla, non c’è un’evoluzione narrativa o una crescita psicologica dei personaggi. Lo spettatore non si sente ricompensato o arricchito, alla fine, come invece dovrebbe essere. È stato più un caso mediatico che altro. Se ne è parlato più per la risonanza che ha avuto che non per il suo contenuto. Probabilmente presto se lo dimenticheranno tutti.

Prossimo futuro: è vero che è in cantiere un film su The Pills? E sarà un film conclusivo o no?

Sì, è in cantiere. E forse tira un po’ le fila, ma non so se definirlo conclusivo.

luca vecchi dylan dogA breve uscirà anche Dylan Dog – Vittima degli eventi, un lavoro molto originale, la cui particolarità più interessante sta nell’aver trapiantato un personaggio londinese a Roma. Per gli appassionati del fumetto di Sclavi potrà sembrare un tradimento, ma forse è una caratteristica che avvicinerà di più il personaggio al pubblico…

Sì, diciamo che è stata fatta di necessità virtù: girare a Londra sarebbe stato oltremodo costoso e complicato; d’altra parte abbiamo pensato di trasformare quella che poteva essere una debolezza in un punto di forza. Roma è abitata da moltissime leggende metropolitane, storie sconosciute, portare Dylan Dog a Roma potrebbe essere uno stimolo culturale. A livello seriale sarebbe bello spostarsi in giro per l’Italia e indagarne i misteri. Dylan Dog – Vittima degli eventi è stato finanziato con il crowdfunding, esperienza decisamente insolita in Italia… Siamo riusciti a tirare su una bella somma. Abbiamo subìto molte critiche, ma tanti hanno creduto in noi.

In realtà gli italiani sono un po’ diffidenti verso Internet come “luogo” di pagamento… Mi è capitato di incontrare per caso qualcuno che ci teneva a contribuire ma, piuttosto che pagare da Internet, mi ha consegnato i soldi in mano, così, in giro. Il pubblico italiano lo devi conquistare. Poi si affeziona, si appassiona. Se gli mostri che lavori duro, che ci tieni a portare a casa il risultato, si lascia andare. È un po’ una ragazza difficile (sorride).

Hai pensato al riferimento da salvare di cui sopra?

Confessioni di una mente pericolosa, l’opera prima di Clooney regista.

Qual è la tua massima ambizione?

Fare il regista. Lavorare da professionista, con tutti i crismi, e pagare i professionisti che lavorano con me.

Potersi esprimere è un lusso, un lusso che ti devi guadagnare.

* foto di copertina di Marco Rapaccini (Officine Fotografiche Roma) – Dude Magazine

a cura di Margherita Berardi

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