Bradisismo, precarietà, paure: “Uscita di emergenza” in teatro

Una tragicommedia in cui i protagonisti Vittorio Viviani e Gino Auriuso non fuggono dalle scosse dovute al fenomeno del bradisismo, mentre il loro rifugio si riempie di crepe. In scena al Teatro della Cometa fino al 25 gennaio

Nella Napoli dei Campi Flegrei la terra trema in continuazione. È il fenomeno del bradisismo che qui la popolazione avverte con più forza: le scosse, i continui movimenti del suolo verso l’alto e verso il basso hanno spinto gli abitanti ad abbandonare precipitosamente case e palazzine per trovare rifugio in altri quartieri. Gli unici a rimanere, convinti a loro modo di aver fatto un affare, sono un sagrestano e un suggeritore teatrale, i due protagonisti di “Uscita d’emergenza”. La tragicommedia di Manlio Santanelli e diretta da Enrico Maria Lamanna sarà in scena al Teatro della Cometa fino al 25 gennaio.

Il suggeritore teatrale Cirillo (Vittorio Viviani), ormai senza lavoro e in cerca di una casa, si lascia convincere dal suo amico Pacebbene (Gino Auriuso), sagrestano scappato dalla parrocchia, ad andare a convivere in una casa ai Campi Flegrei, unica zona di Napoli dove si trovano case libere e a buon mercato. Questo perché il bradisismo è più attivo che altrove. Tale fenomeno, che consiste in un periodico abbassamento o innalzamento della terra, nello spettacolo di Santanelli diviene metafora dell’instabilità della vita umana e della sua ineluttabile infelicità.

In poco tempo la catapecchia di Cirillo e Pacebbene si trasforma nella loro tana, nel loro rifugio da cui scappare è moralmente e fisicamente impossibile. Solo qualche fugace scappatella all’esterno, giusto il tempo necessario per risolvere un’emergenza dettata sempre da futili motivi come recuperare una pagina di un libro o un effetto personale. Mai per trovare la via del riscatto personale o per riprendersi tra le mani la propria vita che, lentamente, si consuma alla stregua di una debole fiammella sotto una campana di vetro.

Locandina TEATRO COMETA Uscita d'emergenza - CopiaE scorre via fra ricordi, rimpianti, speranze presto soffocate da nuove scosse e tanta amarezza. Mentre cadono a terra calcinacci e le crepe sui muri si allargano, lasciando entrare solo tanto freddo, il precipitare instancabile di gocce d’acqua cadenza i ritmi di questo spettacolo. Un espediente che potrebbe ricordare da vicino “Il deserto dei Tartari”. Nel romanzo di Dino Buzzati tornano prepotentemente i temi dell’attesa, del tempo che scorre e della precarietà. Il protagonista Giovanni Drogo, alla fine, sarà sopraffatto dalla ripetitività dei giorni che si impadronirà di lui nello stesso modo in cui una goccia d’acqua scava un solco in una roccia: lentamente. Molto lentamente. Ma in maniera devastante. Il soldato consumerà così la propria vita in quelle mure abbandonate in attesa del nulla.

Ma, mentre Giovanni Drogo è abbandonato a sé stesso in una pianura desolata, in attesa di un nemico che mai si paleserà, Cirillo e Pacebbene si confrontano e si scontrano quotidianamente senza un attimo di respiro su amore, religione, gioie, donne, sconfitte, vittorie. Un dramma umano da cui emerge da una parte la loro opposta e inconciliabile visione della vita, dall’altra tutta la propria insicurezza, instabilità e infelicità. Perché ognuno di loro porta addosso un fardello che schiaccia anima e coscienza, un peccato di cui anche la “semplice” confessione non potrà mai liberare il profondo senso di colpa che lo flagella. E intanto, in lontananza, si sente lo sciabordio del mare, musica leggera e soave che si infrange però fra i sacchi di terra e il disordine reale ed esistenziale della vita nei Campi Flegrei.

Va subito detto che il testo teatrale di Manlio Santanelli è un testo difficile, impegnativo e che mette a dura prova gli attori sul palcoscenico. Prova che Gino Auriuso e Vittorio Viviani hanno brillantemente superato. Il grande limite di tutto l’impianto si è mostrato però nel momento in cui abbiamo spostato la nostra attenzione sullo spettatore: la durata della pièce è troppo lunga (si sarebbero potute tagliare alcune scene o accorciare dialoghi, magari costringendo la scrittura in un solo atto) e sono troppi i rivoli tematici che l’autore porta avanti, con il rischio plausibile di uno smarrimento da parte del pubblico in platea. Siamo rimasti particolarmente soddisfatti dalla scenografia e dalle luci: la costruzione della catapecchia, del rifugio esistenziale e umano dei due sfortunati protagonisti suggerisce quel senso di precarietà e claustrofobia che ben si adatta allo spirito del testo.

Polvere, calcinacci e diversi futili oggetti sparpagliati per i pochi metri quadrati a disposizione rendono perfettamente l’idea, tanto che un perenne senso di angoscia attanaglia lo spettatore. Poco ci manca e potremmo immaginarla come una catapecchia del secondo Dopoguerra. E poi c’è quel tetto di paglia che per forma e struttura potrebbe richiamare la capanna di Betlemme, allusione a una Natività che per loro sarà tragica.

Viviani Auriuso

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