Trieste: il diario di viaggio da una città magica

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Sono molte le cose da vedere in una città storica come Trieste, vi diciamo come visitarla in un giorno senza perdervi il meglio

Ho amato Trieste molto tempo prima di visitarla, come capita a molti, nei confronti di altrettante città. Mi è successo con Parigi e con Trieste. Sull’origine dell’amore per Parigi, beh, non c’è granché da aggiungere a quello che può dirvi una qualsiasi cartolina dello Champ de Mars, di Place des Vosges o di Montmartre (e si potrebbe continuare all’infinito).

Trieste invece è stato, più che un amore a prima vista, un amore a prima lettura, dal momento che l’idea nebulosa che ne ho sempre avuto è stata quella mutuata, tra i banchi del liceo, dal Ferroni, ai capitoli “Italo Svevo” e “Umberto Saba”.

Non ho mai avuto un’immagine precisa della fisionomia della città, piuttosto ne ho coltivata una della sua natura irrequieta, con un cuore pulsante sangue delle più disparate arterie del Vecchio Continente ed un’anima colta, anticonformista e finemente ironica. Il tutto dietro le sembianze di un’elegante città austroungarica. Cliché in perfetta sintonia con le fantasie di un’adolescente dalle origini sparse in tutta Italia.

Mi sono ritrovata a Trieste un ottobre di quasi dieci anni dopo, a sorpresa, una sorpresa pensata apposta per me. Il tempo di una giornata, una delle più piacevoli della mia vita, il che ha reso sopportabili e vagamente poetici anche il vento freddo ed una fittissima pioggerellina che hanno accompagnato quasi l’intera gita.

Non avevamo una guida e non l’abbiamo comprata; avendo un solo giorno a disposizione, siamo andati a zonzo seguendo l’intuito: ci saremmo documentati al ritorno per un programma di visita meglio organizzato. Quello che sto per fornirvi è, infatti, senza alcuna pretesa di completezza, un suggerimento di quello che si può visitare nell’arco di una giornata (diciamo a partire dalle 10:00, senza fretta, per girovaghi poco mattinieri come me). Le informazioni storico/turistiche le lascio alle guide all’uopo specializzate.

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Non posso fornire indicazioni sul tragitto per arrivare a Trieste in auto, essendo, da questo punto di vista, una turista molto distratta. Ricordo che siamo arrivati (da Ovest) in autostrada, sintonizzati su una stazione radio in cui due giornalisti (credo), si scambiavano riflessioni sulla seconda guerra mondiale, esclusivamente in friulano, una lingua che trovo gradevolissima: ho capito quasi nulla, ma è stato spassoso[1]. L’ascolto concentratissimo e l’osservazione di un paesaggio completamente nuovo, mi hanno distolta da ogni cartello stradale.

Tuttavia me ne è rimasto impresso uno, quello dell’uscita per la nostra prima tappa: Prosecco, che però ho subito scoperto – con delusione – non avere nulla a che fare con le note bollicine. Uscendo a Prosecco, inerpicandoci su una collina boscosa, siamo arrivati al Tempio Mariano di Monte Grisa, che ci avevano consigliato di visitare. Costruzione imponente ed avveniristica, è nato da un voto fatto nel 1945 dall’allora arcivescovo di Trieste, Mons. Santin, per la salvezza della città, diventando simbolo dell’unione tra Oriente ed Occidente. Edificato tra il 1959 ed il 1966, assomiglia ad una specie di piramide. In tutta sincerità, a digiuno di competenze architettoniche, l’ho trovato esteticamente abbastanza brutto, nonostante la toccante storia della sua fondazione. Vale però la pena di visitarlo per lo spettacolo magnifico che si gode dalla sua terrazza affacciata sul golfo. In quel giorno appannato di nebbia, gli arbusti e gli alberi ai nostri piedi ci indicavano la costa immersa nell’azzurro stinto del cielo e del mare, non distinguibili all’orizzonte. Nella bella stagione sarà sicuramente possibile bearsi del verde intenso della vegetazione sul grigio luminoso del Carso, inondato da un Adriatico insolitamente blu. La foschia di quel giorno, però, attenuando i colori, ha trasmesso alla fisicità dei luoghi il senso della loro storia: una terra di confine, dal confine imprecisato. Affascinante, contesa eppure inafferrabile.

Chiusa la parentesi “sacra”, abbiamo preso coraggio e, per completare una sorta di percorso spirituale – inverso per ragioni geografiche -, prima di una passeggiata nel centro storico ci siamo diretti da un angolo di Paradiso verso una piccola succursale dell’Inferno, la Risiera di San Sabba – macabra ironia del nome -, unico campo di sterminio in Italia durante la seconda guerra mondiale. In genere, posti come la Risiera sono meta di gite scolastiche: io ringrazio il consiglio di classe della mia sezione per non avermi mai portata ad Auschwitz. Tuttavia, già che c’eravamo, siamo andati a fare due conti con un passato che ci è stato generosamente risparmiato dalla Fortuna.

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Costruita come stabilimento per la pilatura nel 1913, la Risiera si trova in una zona periferica e non si distingue particolarmente dall’ambiente che adesso la circonda; tende a mimetizzarsi fra un supermercato e i palazzi circostanti. È un edificio piuttosto piccolo per l’orrore che è riuscita a contenere. I locali claustrofobici della detenzione e della tortura (Sala delle Diciassette Celle e Stanza della Morte) forniscono ai visitatori un esempio di disumana brutalità. Il forno crematorio, distrutto dai nazisti in fuga, è evocato da un’impronta di lastre di metallo, eco se possibile ancora più inquietante di una ferocia indicibile, che impone ai visitatori, come riflesso condizionato, un silenzio denso e grave.

Per restituire allegria alla giornata, nel fermo proposito di assumere il Male a piccole dosi e rimandando quindi la visita alla Foiba di Basovizza a data da destinarsi, ci siamo infilati in macchina alla volta del centro di Trieste.

È bastato trovarsi sul molo di fronte a Piazza Unità d’Italia per riacquistare, pur sotto la pioggerellina di cui sopra, fiducia nelle qualità dell’uomo e nella sua capacità di pensare e produrre Bellezza. La Piazza è un enorme salotto aperto sul mare, incoronato sui restanti tre lati da sontuosi palazzi ottocenteschi (quasi tutti). L’attenzione è dapprima catturata dall’imponente Municipio – dai buffi soprannomi – cui file di faretti incastonati nel pavé conducono lo sguardo dalla banchina. Alla sinistra del Municipio (dando le spalle al mare) si ergono l’attuale prefettura, con i suoi mosaici dorati, Palazzo Stratti e il Palazzo cosiddetto Modello. Sulla destra, invece, sono Palazzo Pitteri, il più antico, il Grand Hotel Duchi d’Aosta ed il meraviglioso Palazzo del Lloyd triestino, ora sede della Regione.

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Dopo un’occhiata alla Fontana dei Quattro Continenti ed alla statua di Carlo VI, si può fare un tuffo nel passato letterario della città entrando nello storico Caffè degli Specchi, ai piedi di Palazzo Stratti. Si può, per chi lo sa: noi purtroppo non lo sapevamo e siamo andati oltre.

Essendosi fatta ora di pranzo, ci siamo fermati a mangiare una piadina (banale direte, invece era molto buona) a qualche isolato dal Teatro Romano. Sazi, ci siamo dati alla ricerca di un buon caffè, per cui Trieste è nota: l’abbiamo trovato in un grazioso bar – forse un tantino affettato nei richiami ad ambientazioni rétro, ma dal personale gentile. Alla nostra richiesta di un tipico dolce locale, ci è stata offerta una fetta di torta “carsolina”, fino ad allora nota ai nostri palati come “millefoglie”. Una delizia.

Appagati dalla gustosa pausa pranzo, ci siamo incamminati verso la poco distante Piazza della Borsa. Dopo averne ammirato il Palazzo del Tergesteo – che i lettori di Svevo conoscono bene – e il Palazzo della Camera di commercio, che, bianco e rosa, sembra fatto di pasta di zucchero, abbiamo proseguito lungo Corso Italia, in cui la città acquista un po’ della modernità che la accomuna alle nostre.

Svoltando in via Dante Alighieri, però, una nuova sorpresa: mimetizzato tra la folla, un timido Umberto Saba di bronzo sembra uscire dalla Coin e dirigersi verso Via San Nicolò. Inevitabile la foto ricordo.

Addentrandoci sempre più nel Borgo Teresiano lungo via Dante, ci siamo trovati in Piazza Sant’Antonio Nuovo, davanti a un piccolo canale, chiamato, appunto (!), Canal Grande sulla cui sponda spicca la facciata ricamata del Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl”. Sulla Piazza di Sant’Antonio convivono due chiese di diversa religione, la chiesa cattolica di Sant’Antonio Taumaturgo e il tempio serbo-ortodosso di San Spiridione, coinquilini pacifici in accordo alla mentalità libera di una città che è sempre riuscita a liberarsi dalle costrizioni ideologiche che la storia ha tentato di imporle.

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All’uscita dall’atmosfera bizantina di San Spiridione, l’incupirsi del cielo e la rinnovata pioggia ci hanno convinti a riavviarci verso casa.

Non sono ancora tornata a Trieste, ma nel frattempo ho letto un libricino – acquistato in una libreria della mia città che per ogni meta di viaggio tira fuori una guida del tutto insolita – intitolato Trieste sottosopra (edizioni Laterza). L’autore, Mauro Covacich, triestino di nascita sinceramente innamorato della sua città, ci propone quindici itinerari, sfatando diversi luoghi comuni in alcuni dei quali ammetto di essere caduta, che hanno intrappolato l’immagine mitteleuropea di Trieste nella sua rappresentazione letteraria di inizio Novecento. Conducendoci nei luoghi della “triestinità” più genuina, egli ce ne illustra, ora con scanzonata ironia ora quasi con commozione, la versione più autentica: “Accanto alla Trieste austroungarica è sempre esistita un’altra Trieste. Accanto alla città dei caffè letterari, della composta amicizia di Svevo e Joyce, c’è sempre stata un’altra città morbida, disinvolta, picaresca, dai connotati quasi carioca. […] C’è un edonismo antico, morale, nei triestini. E anche un vitalismo moderno un po’ easy-going, alla californiana. Un amore per la vita che veneti e udinesi considerano erroneamente come godereccio, solo perché non si confà agli standard della produzione e del profitto nordestini. Non a caso molti di loro indicano Trieste come la Napoli del Nord”.

È questa, infine, l’impressione che ne ho ricavato: una città a prima vista composta e quasi austera, ma d’improvviso pervasa, complice il mare, da una vivacità tutta mediterranea. Trieste è stata attraversata per lungo tempo e ripetutamente da correnti d’odio e di ferocia che la bora è sempre riuscita a spazzare via, lasciando il posto ad una gioia di vivere consapevole, leggera ed arguta. Il clima a volte ostile nasconde un animo assolato ed ospitale. “Come un amore con gelosia”, dice Saba.

Ed io non vedo l’ora di tornarci.

[1] ATTENZIONE: triestino e friulano, pur somigliandosi, non sono la stessa lingua. Guai a confondersi davanti agli autoctoni!

a cura di Margherita Berardi

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