Velluto grigio, in viaggio verso Belgrado

Il racconto di un viaggio on the road nel cuore dei Balcani, dal Kosovo a Belgrado, capitale della Serbia

Scende talmente leggera che sembra finta. Scende come fosse dentro uno di quei barattoli di vetro natalizi che basta scuotere.
Tra Krusevac e Kursumilja, nell’ennesima tappa di questo viaggio della speranza, ci si ferma a una pompa di benzina chiusa. Scendiamo praticamente tutti a sgranchirci le gambe. Le nuvolette di fumo che si innalzano in questo posto che mai ricorderò si mescolano alle sigarette che tutti fumano nel momento della pausa. Tutti, serbi, albanesi, turchi, turisti egiziani, portoghesi, danesi…
Intanto la neve continua a scendere senza attaccare.

Sono partito alle otto meno un quarto di sera con un combi dal villaggio in cui vivo e lavoro da novembre, Velika Hoča, pezzo di Kosovo tra Macedonia e Albania, pezzo di Metohija tra Serbia e Montenegro. Prizren dista appena quindici chilometri, la municipalità del mio villaggio si chiama Orahovac, terra di noci. Destinazione Belgrado per passare, dopo una settimana lavorativa, un weekend di divertimento nella Grande Mela dei Balcani. A guidarlo, il Combi, un uomo dalla dentatura balcanica. Mi chiede che ci faccio lì e se posso superare la frontiera. Gli rispondo che l’ho già superata più volte. Non è convinto, cerca qualcuno, trova Rastko, quattordicenne ribelle del villaggio, a cui piacerebbe la vita da clown. Rastko lo rassicura molto di più di come avrei potuto saper fare io.

Dopo altri pochi chilometri a Opteruša, villaggio albanese. Ci aspettano tre persone, un uomo di mezza età, sua moglie e il figlio. Il piccolo avrà sei anni ed è affetto da sindrome di Down. Non lo capisco immediatamente. Anzi, a un certo punto, il bimbo mi tocca il cappuccio del giubbotto per giocare. D’istinto mi ritraggo, temo subito che mi chiedano qualcosa e che mi scappi qualche parola in serbo. Mi giro e pronuncio l’internazionale ‘ciao’, con il quale non si sbaglia mai.
Noto la malattia, abbozzo un sorriso finto perché dentro mi sotterro. Pensavo a come avrei fatto a scambiare qualche parola in albanese, mi ritrovo davanti un bimbo tenerissimo che mi chiede come mi chiamo. Il suo nome, purtroppo, si perde nella sua lingua.

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Lascio lo spartano Combi per salire su un pullman abbastanza moderno. Mi rilasso nel momento in cui scopro che la traversata fino a Belgrado durerà nove ore. Tolgo le scarpe, come sempre ho fatto in tutti i miei viaggi lunghi. Si avvicina il copilota e mi dice in albanese di mettermi le scarpe. Non capisco, me lo ripete chiedendomi se parlo turco. Provocatoriamente, me lo chiede in serbo. Mi scappa una parola nella stessa lingua. Ho sbagliato, lui spegne il sorriso, ‘shoes, please’!
Arrivati a Pristina il pullman si riempie in un attimo. Tante facce serbe aspettano il viaggio nella loro capitale, quelle albanesi qui dentro appaiono meno sicure.
Alla mia sinistra si siede un uomo dalle proporzioni importanti. Mangia patatine, come cade la pioggia su Gazimestan. Incessantemente. Il suo naso, di notte, è davvero rumoroso.
Alla destra, un vecchino albanese mi sorride. Indossa una giacca di velluto grigia, sopra una camicia a quadri bianconeri. Ha una coppola e conosce perfettamente il serbo. Talmente bene che quasi mi viene il dubbio.
Dietro alla mia sinistra un uomo vestito completamente di nero cattura la mia attenzione. Parla con tutte le persone presenti sull’autobus, utilizzando indistintamente serbo e albanese. Non riesco davvero ad indovinare di quale nazionalità sia, ma in dogana tutto diventa più chiaro non appena risponde ‘da’ quando, alla riconsegna dei documenti, viene pronunciato il suo nome. Dejan.

Il vecchino albanese alla mia destra è salito pochi chilometri prima della dogana. Il mio zainone è rimasto sospeso nel corridoio, perché sopra non ci sta proprio. Chiedo al copilota se posso metterlo giù, ma la sua risposta è arrogante e sfuggente.
Arrivato in dogana, decido di scendere. Mi sento leggermente più sicuro alla dogana serba, rispetto a quella di Kosovo. Il copilota non perde l’attimo e, vedendomi mettere lo zainone nel baule sottostante, chiama il doganiere serbo per perquisirlo. Anche il doganiere non perde l’attimo, si avvicina con la faccia truce parlandomi inglese, gli rispondo in serbo. Mi chiede cosa ci faccio lì, gli rispondo. Quando nomino Decani mi sorride, mi dà una pacca sulle spalle e non mi apre nemmeno lo zainone.
La faccia del copilota albanese si rabbuia, ma pagherò caro questa mio vanto.

La strada serba oltre la dogana di Merdare è molto rovinata dalla neve e dalle piogge invernali. Molti massi, decisamente più del solito, obbligano il pullman a fermarsi e a compiere manovre balcaniche. Nel buio di questa notte nuvolosa, quando va bene, incontriamo volanti della polizia lampeggianti che indicano la presenza di frane, altrimenti macchine parcheggiate ai bordi della carreggiata ad indicare il pericolo.

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Poco dopo Krusevac, il pullman rallenta nel bel mezzo del nulla. Di fianco alla casella della posta di una casa arrugginita e lugubre, sta appollaiato un poliziotto con le scritte cirilliche sulle toppe della divisa blu. Nel nulla, fa un gesto con la mano. L’autobus si ferma, lui sale e trova posto di fianco all’uomo tutto nero. Dicono capiti spesso da queste parti che i poliziotti facciano l’autostop. Ogni volta che mi giro, mi fissa, cercando di capire per quale motivo debba scrivere o debba comunque usare un iPad nel mezzo della notte.
Scende intorno a Kraljevo, qualche chilometro dopo l’ingresso in autostrada, quando l’autista decide per l’ennesima sosta di questo viaggio. Inspiegabilmente, questa sosta è davvero lunghissima. Almeno quarantacinque minuti, quando mancano solamente un paio di orette a Belgrado. Scendo per sincerarmi che non ci sia qualcosa che vada storto. E non credo proprio ci sia, visto che trovo l’autista, il copilota e il mio vicino ingombrante mangiare allegramente un bel piatto di pljieskavica mista a cevapcici.

Entro in questa sorta di autogrill per prendere il caffè. Arrivo al bancone per ordinare un caffè turco ed è in quel momento che inizio a notare qualcosa di strano.
L’uomo dalle proporzioni importanti si alza insieme al copilota. I due si avvicinano al vecchino albanese seduto accanto a me. Quest’ultimo chiama i due ragazzi rom, seduti sul pullman esattamente davanti a me, sulla sinistra. Il copilota mi indica con la testa e gli altri si girano. Vedo questa scena riflessa allo specchio posto dietro la macchina del caffè del bar.
Il caffè è bello cremoso, ma non serve a far diminuire la mia adrenalina. Risalgo sul pullman ed inizio ad essere sospettoso su tutto. È stato lo stesso copilota a far accomodare il vecchino albanese di fianco a me. Quest’ultimo spesso parla con i due ragazzi rom. Questi non nascondono il loro gioco preferito da Kraljevo a Belgrado, un bel coltellino. I miei occhi vorrebbero prendere sonno, ma non la mia mente. Di quelle due ore ricordo l’orologio digitale sopra di me e i cartelli ossessivamente cercati per vedere quanto mi separava da Belgrado. Inoltre ricordo i due ragazzi rom che continuano a giocare con il mio sguardo.

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L’adrenalina è al massimo quando ci fermiamo alla stazione degli autobus a Belgrado. Sono le cinque del buio mattutino. Durante i miei numerosi viaggi ho avuto tante situazioni simili, dal treno notturno indiano al pullman nemmeno notturno di Betlemme. Conosco i Balcani, perciò, mi attivo in modalità “non perder d’occhio niente”.
Ogni cosa che accade la riconduco a quello sguardo furtivo al sapor di caffè. Presto la massima attenzione in tutte le mosse che faccio. Arrivando a Belgrado controllo il mio portafogli nel borsello. Lo appoggio sul sedile, accanto al sacchetto che contiene il mio tablet e un libro. Prendo il mio giubbotto dallo spazio soprastante i sedili, guardando i due ragazzi rom e tutte le altre persone sospettose di questo autobus. Scendo gli scalini, allontanandomi appositamente dal caos vicino al baule. Aspetto con calma il momento buono, portando il borsello sempre vicino a me. Mi avvicino al baule quando non c’è nessuno e me lo carico sulle spalle. Non voglio camminare con il tablet in mano. Mi avvicino a una panchina vuota, ma in mezzo a tutti. Apro la cerniera e rapidamente posizione il mio tablet dentro il mio backpack. Vado a prendere il taxi decidendo di non camminare troppo da solo in centro a Belgrado. Temo che mi seguano. Evito i taxisti che mi chiamano ripetutamente, ne scelgo uno seduto in macchina a leggere il giornale. Mi siedo, dico l’indirizzo. Faccio un sospiro di sollievo e apro il mio borsello.

Muoio dentro. Il mio portafogli non c’è.

marcoandrea spinelli

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