Ima magla : racconti dal Kosovo

Ima magla

Ima magla non vuol dire solo nebbia in serbo. Ima magla è un turbinio di sensazioni, quelle provate in un 14 febbraio lontano dal consumismo europeo

di Marcoandrea Spinelli

Dentro un vigneto, Vekoslav sorride soddisfatto per essere riuscito a portare un ragazzo italiano e una ragazza argentina alla sua festa di Sveti Trifun.

Nel resto d’Europa ci si appresta ad organizzare il melenso San Valentino, la pacchia dei ristoratori. Per una sera, tutto può costare il doppio. Di questo parlo, salendo il sentiero con Martina, argentina capitata a insegnare spagnolo, comunque castigliano (ci tiene alla precisazione!), in un villaggio serbo di Kosovo. Anche a Buenos Aires è lo stesso, ma certo in Europa questo festeggiamento è portato alle estreme conseguenze.

Deda, nonno, Dimitrije ci sente parlare metà spagnolo, metà italiano e si intrufola nel discorso. Non in maniera pertinente, ma il ghiaccio così si rompe. “Ah, il Sudamerica. Fidel Castro, Che Guevara. Sve comunisti. Dobro”, dove sve sta per tutti e dobro per bene. Martina sorride e dice di no, che non è proprio così, anzi. Deda Dimitrije non ha un’ottima memoria e per altre tot volte chiederà a Martina un parere sulla politica comunista in Sudamerica. Parlano anche di Chavez, senza sapere che, pace all’anima sua, non c’è più.

E’ la dolcezza di questo nonnino che mi stordisce, anche più del vino rosso in questa mattinata di vino rosso.

Tutto inizia due sere prima, dopo il prelibato dolce di Daliborka, detta Dana. Su Viber, non Whatsapp, mi scrive Milorad. “Sta radiš?”. Cosa fai?

Quella era una delle prime volte in cui mi scriveva, ora è la normalità di un’amicizia che sarebbe probabilmente più forte, distanze e lingue permettendo. Mi invita a giocare a biliardo a casa di Vekoslav. Accetto l’invito, bevendo l’amarissimo caffé turco di Dana. E più è amaro, più a me piace.

Nella sala da biliardo troviamo anche Jovan, macho del villaggio. Mi spiega le regole del ‘loro’ biliardo. In mezzo cinque birilli, uno rosso e quattro bianchi. Il bianco vale un punto, il rosso cinque. Se cadono tutti, dieci punti. Sul tavolo verde spento tre palle, due bianche, una rossa. La stecca colpisce la rossa che deve impattare la bianca. Solo la bianca raggranella punti. Finché vengono raggranellati, continua lo stesso giocatore. Al primo colpo vuoto, si cambia giocatore. Se i birilli cadono colpiti dalla rossa, è un disastro. Tutti i punti vanno agli avversari. Tutti, anche quelli dei colpi precedenti.

Perdo amaramente, pur giocando per la terza piazza fino ai miei ottanta punti. Si arriva a cento e vince Vekoslav in quindici colpi, molti consecutivi. Poi Milorad.

Martina non gioca. Un po’ perché non aveva voglia, un po’ perché non viene presa in considerazione l’idea che lei possa giocare a biliardo. Essendo donna.

Ci sediamo a bere un bicchierino di rakija a fine partita. Martina racconta che qualche giorno dopo sarà il suo compleanno ed invita gli altri in un bar del villaggio. Giusto per festeggiare la mezzanotte, niente di organizzato. Ci sarà anche Patricio, detto Pato, il quale verrà apposta dall’Italia per il compleanno della sua bella.

All’invito i ragazzi rispondono di no. E rispondono di no, nel modo più naturale possibile. Come fosse normale. Io e Martina rimaniamo basiti. Essendoci altre ragazze nel nostro gruppo, le amiche di Martina, i maschi non si sentirebbero a loro agio. Qualche giorno dopo, Milorad mi spiegherà che la sua risposta sarebbe stata diversa se ad invitarli fosse stato direttamente Pato.

Insomma, come al biliardo. Rossa su bianca si può fare, bianca su rossa no.

Vekoslav percepisce il momento di imbarazzo, forse perché più anziano o forse semplicemente annebbiato dalla rakija, e ci invita al suo vigneto per la festa di Sveti Trifun. Appuntamento due giorni dopo, alle sei del mattino, in piazza. Invitando Martina, aggiunge che a nessuna donna del villaggio è permesso andare al vigneto quella mattina, ma lei dopotutto è straniera e si può fare un’eccezione!

Probabilmente sono davanti a un momento storico nella vita del villaggio. Non me ne rendo molto conto, ma Milorad e Jovan si guardano abbastanza divertiti.

Alle sei di mattina di quel 14 febbraio il sole si sta ancora stiracchiando, oltre le lenzuola delle sue nuvole. Non sembra intenzionato a uscire quel giorno, anzi. Lo capisco, fa freddo. Molto. La brina mi guarda prepotente dai miei scarponcini color terra bagnata o semplicemente beige scuro. Non ha attaccato solo sull’erba, ma pure sulla fanghiglia che, appunto, dopo quella fredda notte, non è più fanghiglia.

C’è una leggera nebbia sottile. Più bruma che nebbia. Comunque, mentre risalgo la vietta di casa mia, sono felice perché conosco il termine serbo per nebbia. Arrivo all’appuntamento ed esclamo “ ima magla ”. Vekoslav sorride e mi dà una pacca sulle spalle. Lui è stato il primo di questo villaggio ad invitarmi a casa sua. Era metà novembre e avevano appena ucciso i suoi maiali. Quel giorno, Vekoslav era dispiaciuto del mio ritardo, il quale, in realtà, era stato appositamente pensato. Le grida dei maiali mi avevano spinto lontano da quell’abitazione.

Dopo l’uccisione del maiale, ecco la festa del vino. Un’accoglienza migliore era difficile da immaginare.

Ci inerpichiamo in questo sentiero. Oltre a deda Dimitrije e tata, papà, Vekoslav, c’è il nipote, Aleksandar, detto Azzo. Sicuramente scritto non in questo modo.

Arrivati al loro vigneto, in lontananza noto altri piccoli falò sulle colline circostanti. Così, inizia il rito di Sveti Trifun. Vekoslav e Aleksandar iniziano a cercare dei rametti, piccoli e facilmente infiammabili. Formano un piccolo mucchio, il quale diventa più massiccio con della carta. Accendino e via. Il fuoco parte abbastanza rapido, perché, anche se “ ima magla ”, “ne puše vetar”, non soffia il vento.

Mentre Aleksandar accatasta rametti e rami di diversa dimensione, Vekoslav prende dalla borsa una cesoia. La consegna a suo padre, il quale s’incammina in una fila del vigneto. Ci chiama a sé e ci spiega come funziona il rito. Capiamo molto poco, anche se lui ci tiene a spiegarci i motivi del suo gesto. Noi annuiamo, ma sarà Aleksandar, in inglese, a tradurci il tutto.

I tre tagliano tre diversi rami del vigneto, dalla simpatica forma arcuata, che nella mia mente ho sempre paragonato ai quadri di Fernand Léger, cubista più curvilineo.

Dopo averli attentamente potati ed aver eliminato anche i più innocui rametti, ecco il gesto propiziatorio. Deda Dimitrije apre la bottiglia di vino e ne versa il contenuto sulla parte superiore dei rami, esclamando anche una frase scaramantica circa la prossima vendemmia.

Dopo si prendono i bicchierini di plastica appositamente portati e si brinda tutti insieme. Sono le sei e quaranta del mattino e sto bevendo il primo bicchiere di vino della giornata.

Mentre il fuoco prende forza, Vekoslav inizia a tagliare i vari tipi di salsiccia e wurstel che ha portato. Cerco con lo sguardo una griglia o un qualcosa su cui appoggiare la carne, ma non la trovo. Intanto vedo deda Dimitrije e Aleksandar scortecciare alcuni piccoli, ma lunghi rami. Accuratamente, ne tolgono la parte più scura solamente ad un’estremità. Leggermente, curvano questi rametti, impiantando l’estremità opposta nel terreno. Infine, prendono i pezzi di carne e li incastrano nella parte ripulita, girando il ramo che, curvandosi, dondola penzoloni sopra il fuoco. E io che cercavo una piccola griglia…

Dopo qualche bicchiere di vino, qualche salsiccia, dopo che la nebbia si è alzata e il verde dell’erba si è sbarazzato ancora una volta del bianco, ecco che deda Dimitrije prende sotto braccio me e Martina ed inizia a raccontare la guerra vista dai suoi occhi.

“Quando sono nato c’era un re. Così il mio papà diceva. Poi c’è stato Tito e tutto è cambiato, tutto era meglio. Ci potevamo permettere tutto. Si stava bene con lui. Poi Milošević ha rovinato tutto”. Tata Vekoslav non è d’accordo con il padre, prova ad intervenire, ma deda lo zittisce velocemente.

I suoi occhi si riempiono improvvisamente di lacrime. E racconta di quanto era bello il suo vigneto qualche tempo fa, in mezzo a tanti altri vigneti ora lasciati abbandonati, di come era buono il suo vino, di quanto era forte il rispetto tra le persone del villaggio. Ora questo rispetto non esiste più.

Ci parla anche dell’ultima guerra, scuotendo spesso il capo, pur non nominando mai gli albanesi. Dice che la colpa è solo dei serbi, in tutto. Dice che i fratelli della madrepatria si sono dimenticati di loro. E dicendolo si asciuga le lacrime, come farebbe un bimbo.

E’ la dolcezza di questo nonnino che mi stordisce, anche più del vino rosso in questa mattinata di vino rosso.

Torniamo a casa con Vekoslav, il quale ci ringrazia almeno venti volte. Non so di cosa. Ci parla del suo babbo e ci chiede scusa di alcune sue parole. Non c’è bisogno, ma lui ci tiene a raccontarci la sua opinione. Camminiamo in mezzo ai boschi dove veniva a giocare da piccolo, ci dice che erano anni che non passava da queste pianure, anche se sono poco sopra la sua abitazione!

Ci dice che Tito non era buono e che almeno Milošević ci ha provato. Ma su un punto suo padre aveva ragione, nessuno si ricorda di loro, nemmeno i loro fratelli.

Gli occhi diventano umidi nel momento stesso in cui dice brat, fratello.

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