Come Hitchcock è diventato Hitchcock: il periodo americano

Come Hitchcock è diventato Hitchcock: il periodo americano

Sbarcato a Los Angeles, Hitchcock si fa strada nell’industria hollywoodiana stravolgendone una delle regole fondamentali: prima viene la storia, poi i divi

Poco prima di partire per Hollywood, in un’intervista alla rivista britannica Film Weekly del 4 marzo 1939, Alfred Hitchcock elenca gli attori con cui gli piacerebbe lavorare: Gary Cooper, Carole Lombard, Greta Garbo, Claudette Colbert, Ronald Colman, Paul Munì

“Non c’è una sola star in tutta Hollywood della quale non cercherei di alterare o sviluppare il fascino in base alla parte da recitare – dice – Uno dei più grandi errori commessi da Hollywood è quello di lasciare che le proprie star si incanalino in un solco. Quando un attore diventa famoso interpretando un particolare ruolo, la tendenza è quella di costruire i suoi ruoli futuri sullo stesso schema”. Ironia della sorte, non lavorerà con nessuno dei personaggi elencati.

Sarà sempre piuttosto insofferente verso gli attori che, con i loro capricci da star e la loro scarsa propensione all’innovazione, teme possano imbrigliare la sua creatività. Inoltre, come “nativo cinematografico”, lo indispettisce l’idea, fondata, che molti interpreti di origine teatrale “si concedano” al cinema, attratti dai lauti guadagni ma con sufficienza e senso di superiorità.

Nonostante tutto, Hitch si rivela una macchina fabbrica-divi. Lavorare con lui può essere l’inizio sfolgorante o la pietra miliare di una carriera. Oltre ai suoi personaggi-simbolo Cary Grant e James Stewart (4 film a testa) e Grace Kelly (3), la lista comprende Gregory Peck, Ingrid Bergman, Shirley MacLaine (che esordisce con La congiura degli innocenti), Kim Novak (che esordisce con La donna che visse due volte), James Mason, Sean Connery, Philippe Noiret, Paul Newman, Julie Andrews e molti altri.

Il suo primo film americano dovrebbe riguardare l’affondamento del Titanic ma Selznick lo convince a dedicarsi all’adattamento di un romanzo di Daphne du Maurier. Rebecca, la prima moglie, storia di una sposa di umili origini che, nella reggia del neo-marito aristocratico, è oppressa dall’onnipresente figura della defunta consorte di lui e viene perseguitata dalla diabolica governante, vince l’Academy Award nel 1941 come miglior film. La statuetta va al produttore. Per Hitch è il primo di una serie di Oscar alla regia negati. Interpretato da Laurence Olivier e dalla prima musa americana del regista, Joan Fontaine, Rebecca non soddisfa pienamente Hitch ma fa luce su un altro tema fondamentale: il potenziale criminogeno dell’istituzione familiare. Spesso addomesticate da finali rassicuranti imposti dai produttori, sono famiglie ad alto tasso di devianza (con sommo divertimento dello spettatore) quelle de Il sospetto, L’ombra del dubbio, Delitto per delitto, Delitto perfetto, La congiura degli innocenti, Marnie, Complotto di famiglia. Per tacere, ovviamente, di Psyco. Rebecca, a proposito, inaugura lo “psicothriller”, sottogenere che Hitch prosegue nel 1945 con Io ti salverò (altro Oscar mancato), realizzando delle sequenze oniriche in collaborazione nientemeno che con Salvador Dalì.

Nel 1948 si autoproduce per la prima volta e gira il primo film a colori, Nodo alla gola: un ricevimento ad alta tensione che si svolge in un attico newyorkese, mentre nella cassapanca del salotto è nascosto un cadavere. Hitch rinuncia alla sua maestria nel montaggio per un unico (o quasi) piano sequenza lungo l’intero film, con la cinepresa che segue incessantemente gli attori, facendosi strada in un set pieno di mobili a rotelle spostati continuamente. Un esperimento che assicura la totale unità di tempo e d’azione e conserva intatta la natura teatrale del testo.

Hitch si diverte a scomporre e ricomporre le psicologie dei personaggi. Mentre in Nodo alla gola i due assassini Farley Granger e John Dall e il loro invitato che li inchioda, James Stewart, sembrano assomigliarsi e, a tratti, sovrapporsi, in Delitto per delitto, il “buonissimo” Granger e il “cattivissimo” Robert Walker sembrano costituire un unico personaggio “diviso” in due.

Negli anni ’50, l’ideale femminile perennemente inseguito da Hitch, fintamente fragile e dalla sensualità nascosta, si materializza nella figura di Grace Kelly. Dopo Delitto perfetto, arriva per l’attrice il trionfo di La finestra sul cortile (1954), con James Stewart, capolavoro della mescolanza tra giallo e commedia, nonché riflessione filosofica sull’equivalenza tra cinema e voyeurismo. Suspence, ironia, erotismo, azioni che definiscono la psicologia dei personaggi, il tutto in una confezione filmica perfetta. Forse l’unico vero manifesto della mitologia hitchcockiana. Sul set monegasco di Caccia al ladro (1955), Grace incontrerà il Principe Ranieri. Il resto è storia.

La stagione dell’Hitchcock classico si conclude nel ’59 con Intrigo internazionale, spy-story non a caso interpretata dal fedelissimo Cary Grant, da molti considerato il miglior film del regista. Hitch ora è determinato a tornare ai progetti rischiosi e azzardati degli inizi.

Sono anche gli anni della tv. La serie Alfred Hitchcock presents, che poi diventerà L’ora di Hitchcock, va in onda dal 1955 al 1962, per un totale di 365 puntate, di cui 20 dirette personalmente, incentrate su trame inquietanti, lugubri, grottesche. Ogni settimana, sulle note della celebre Marcia funebre per una marionetta, Hitch introduce l’episodio mostrandosi con un accetta piantata nel cranio, o emergendo da una bara, seduto su un tappeto volante o mentre si accende una sigaretta sul rogo. In Italia lo ricordiamo che le fenomenali voci di Carlo Romano e Paolo Lombardi.

Una scommessa sull’autoironia che impensierisce non poco i produttori ma che si rivela vincente. Incredibilmente, il registro umoristico (i telefilm in sé poi non lo sono affatto) accresce la sua credibilità e autorevolezza come mago del terrore, lo rende il regista più ricco di Hollywood e inaugura la parte finale della sua carriera, gli ultimi 7 film, all’insegna della rottura degli schemi. È nato il primo caso di regista-divo della storia del cinema.

L’apoteosi di Psyco inaugura una sorta di “trilogia onirica”. Se nel Bates Motel va in scena una realtà che si fa incubo, Gli uccelli (1963) si presenta come un incubo senza risveglio. Del romanzo di Daphne du Maurier (la stessa scrittrice di Rebecca), Hitch mantiene solo l’idea di base degli uccelli che attaccano in massa l’uomo. 1.400 inquadrature, 371 con effetti speciali, decine di volatili ammaestrati, zero musiche, solo i versi assordanti dei pennuti aggressori, e un finale assolutamente aperto, che lascia presagire il peggio e, soprattutto, non fornisce alcuna spiegazione. Non compare la parola Fine. È il film con cui Hitch traccia una sorta di paradigma del giallo: in un contesto apparentemente tranquillo avviene un delitto e si avviano le ricerche di un colpevole e di un movente. Il delitto è una serie di aggressioni sempre più catastrofiche, il colpevole è una ribellione della natura contro l’uomo, il movente non esiste.

Con Marnie (1964), incubo e realtà si fondono in una condizione di permanente insonnia. Per tornare a distinguerli sarà necessario sciogliere un enigma sepolto in una mente sconvolta. Hitch costringe Sean Connery, che a metà degli anni ’60 è il seduttore cinematografico per eccellenza, nel ruolo di un marito respinto furiosamente dalla moglie, che non voleva neppure sposarlo. Tippi Hedren, la protagonista degli ultimi due film, sarà una delle poche eroine hitchcockiane a non sfondare, oltre ad avere sempre parole di fuoco e grande ostilità contro il regista, che definirà dispotico e opprimente.

Altro pessimo rapporto è quello tra Hitch e Paul Newman, che eccede negli atteggiamenti divistici, che si ripercuote sul risultato finale de Il sipario strappato (1966), thriller politico non memorabile ambientato in Germania Est. Nessuno però può immaginare l’assoluta catastrofe di Topaz (1969). È tuttora inspiegabile come questo film sulla crisi di Cuba pasticciato, lento, farraginoso, incomprensibile, possa portare la firma di un genio del cinema. Colpa di una serie di modifiche e contromodifiche di sceneggiatura, problemi di casting, vari ripensamenti di montaggio, il tutto basato su una materia da cui Hitch vorrebbe tenersi distante anni-luce: la politica. Il commento del regista vale più di tutti: “Un vero disastro”.

Desideroso di riscossa, a 73 anni Sir Alfred torna nella sua Londra con un progetto tratto da un romanzo di Arthur Labern. Come con Il pensionante di mezzo secolo prima, un innocente deve dimostrare di non essere un serial killer. Hitch gira ai mercati generali di Covent Garden, dove i più anziani si ricordano benissimo di lui e di suo padre William, che veniva a prelevare merce per i suoi negozi di alimentari. Ambientazione cockney e operaia, il primo nudo femminile della filmografia, violenza (anche sessuale) insolitamente esplicita, un poliziotto costretto ad ammettere di non aver capito nulla, uno humour nero all’ennesima potenza che simpatizza per l’”assassino della cravatta”, un innocente piuttosto antipatico. Frenzy (1972), suo penultimo film, è uno dei suoi capolavori assoluti.

Nel 1976 molte cose sono cambiate. Sono usciti film come Lo squalo, L’esorcista, Non aprite quella porta. La percezione della paura sullo schermo è molto cambiata. Hitch dunque decide di abbandonare il thriller e, con Complotto di famiglia, gira una commedia gialla su una finta medium che deve rintracciare il nipote abbandonato in fasce di un’anziana miliardaria, che nel frattempo è diventato un criminale. Lei lo cerca per comunicargli che è erede di una fortuna, lui, ignaro, si sente braccato e tenta ripetutamente di eliminarla. Barbara Harris, Bruce Dern, William Devane e Karen Black sono i protagonisti di questa “opera buffa”, californiana ma molto inglese, con cui il regista si congeda dal cinema.

53 film in 51 anni, 6 candidature infruttuose all’Oscar, 1 Premio Thalberg e 1 Golden Globe onorario nel ’68 e nel ’78, nominato dalla Regina Elisabetta Cavaliere dell’Ordine dell’Impero Britannico pochi mesi prima di morire, Sir Alfred Hitchcock se ne va la mattina del 29 aprile 1980, nella sua villa di Bel Air. Da un paio d’anni è stato costretto ad abbandonare una sceneggiatura su un altro film spionistico ambientato in Finlandia, a cui avrebbero dovuto partecipare dapprima Catherine Deneuve e Walter Matthau, poi Liv Ullmann e Sean Connery.

“Non si è accontentato di praticare un’arte – spiega Truffaut – ma si è impegnato ad approfondirla, a coglierne le leggi, più strette di quelle che governano il romanzo. Hitchcock non solo ha reso più intensa la vita, ha reso più intenso il cinema”.

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