Orson Welles: 100 anni tra Shakespeare e i Transformers

Orson Welles: 100 anni tra Shakespeare e i Transformers

Nasceva un secolo fa Orson Welles, uno dei massimi geni del cinema. Per finanziarsi lavorò con Mel Brooks e Totò; fece cartoni animati e spaghetti western. Una carriera vorticosa, tra scontri con i produttori e molti progetti incompiuti

Quentin Tarantino in Pulp Fiction fa servire John Travolta e Uma Thurman, seduti al Jack Rabbit slim, da un irriconoscibile Steve Buscemi camuffato da Buddy Holly. Come ne L’infernale Quinlan, con la comparsata di Joseph Cotten sotto le mentite spoglie di un anziano medico della polizia. Un film che si apre con il piano sequenza più famoso della storia del cinema, citato nel 1992 da Robert Altman all’inizio de I protagonisti. Ancora John Travolta in Get Shorty (1995), cinefilo gangster newyorkese in trasferta a Los Angeles, guarda rapito sul grande schermo lo scontro finale tra Charlton Heston-Vargas e Orson Welles-Quinlan, ripetendo le battute a memoria. Senza contare le numerose citazioni della sparatoria nel labirinto di specchi de La signora di Shanghai, su tutte quella di Woody Allen in Misterioso omicidio a Manhattan.

Il cinema sembra animato da una specie di senso di colpa nei confronti di Orson Welles, indotto a decenni di lontananza dall’America a causa della sua incompatibilità con l’industria hollywoodiana. Nel 1971 ha ricevuto un Oscar onorario in contumacia. Nel 1975 torna a casa per ritirare il premio alla carriera dell’American Film Institute. Ma le cose non migliorano. Il regista, va detto, ci ha sempre messo del suo per infrangere tutte le regole possibili.

È già una star di teatro e radio quando, nel 1940, 25enne, esordisce sul grande schermo con Quarto potere, 9 nomination e un Oscar come migliore sceneggiatura originale. Da allora farà cinema ogni secondo della sua vita, in maniera bulimica, vorticosa, disordinata. Nel 1998 sarà proprio l’AFI a proclamare la sua opera prima miglior film americano di sempre.

La passione coltivata fin dall’infanzia per l’illusionismo scorre in tutta la sua filmografia. Trucco, inganno, menzogna. Sono illusorie la potenza e la gloria di Charles Foster Kane, immaginario magnate dell’informazione (o della manipolazione?) liberamente ispirato alla figura del tycoon William Randolph Hearst, i cui giornali e radio boicotteranno il film pesantemente.

Segue L’orgoglio degli Amberson (1942), altro apologo sulla crisi del capitalismo tradizionale. La pellicola gli verrà sottratta e rimontata in modo più “rassicurante” dalla produzione, che cambierà anche il finale. Welles la rinnegherà.

Fin da bambino si vergogna di quel suo fisico imponente e colossale. Questo gli fa sviluppare una propensione per il camuffamento che influirà non poco sui temi del suo cinema. Anche da giovanissimo, prediligerà sempre parti da anziano. Le sue inquadrature sbilenche e allucinate, omaggio dichiarato all’espressionismo tedesco, deformeranno luoghi, personaggi e, soprattutto, coscienze.

A dargli la fama mondiale è una trasmissione radiofonica. La sera del 30 ottobre 1938, Welles propone sulla CBS una sua personale rielaborazione de La guerra dei mondi di H.G. Wells, reinterpretata come la cronaca di una vera Orson Welles: 100 anni tra Shakespeare e i Transformersinvasione aliena. Lo scherzo di Halloween è studiato nei minimi dettagli. C’è perfino un imitatore di Roosevelt che lancia appelli alla calma. Nonostante per ben quattro volte la radio abbia avvertito che si tratta di pura finzione, a metà del programma in studio vengono a sapere che in tutta l’America si stanno verificando scene di panico. C’è gente, anche di elevata istruzione, che è fuggita dalle proprie case e si sono creati ingorghi di persone terrorizzate in molte strade e piazze. Per fortuna non accade nulla di grave. L’autore del romanzo è furioso, l’emittente teme conseguenze penali. Dopo quella sera, il mondo è pronto per affidare il proprio destino alla radio. Poco dopo, l’umanità vivrà anni di angoscia e speranza, appesa alle voci del vero Roosevelt, di Churchill, Hitler, De Gaulle, Mussolini, Hirohito, Truman. Il 23enne Welles diventa oggetto di studio per i sociologi come il più grande manipolatore mediatico del suo tempo.

Il suo talento immaginifico sa e vuole costruire monumenti cinematografici grandiosi ma si scontra costantemente con le leggi, non tutte insensate, della produzione. Un bisogno di grandezza che lo porta fatalmente a confrontarsi con Shakespeare, di cui mostra la faccia più barbara e nordica, in Macbeth, Othello, Falstaff, più altri progetti abbandonati, e con Kafka, autore che il regista sentirà sempre particolarmente vicino e da cui trarrà, nel 1962, Il processo.

George Orson Welles nasce a Kenosha, nel Wisconsin, il 6 maggio 1915, in una ricca famiglia del Midwest. Suo padre Richard ha una catena di fabbriche di automezzi ed è inventore. Sua madre, Beatrice Ives, è un’affermata pianista. Trascorre l’infanzia in un ambiente di fortissima sensibilità artistica. Viaggia per il mondo e inizia ad eccellere nella musica, nel disegno, nella pittura e nella recitazione. I genitori divorziano quando ha 4 anni e, prima che ne compia 15, saranno deceduti entrambi. Il suo tutore, l’amico di famiglia Maurice Bernstein, lo iscrive alla Todd School di Woodstock, Illinois, un istituto per ragazzi super-intelligenti. A soli 16 anni, durante un soggiorno in Irlanda, fa le prime esperienze teatrali “da adulto”, al Gate Theatre di Dublino. Tornato in patria, si appassiona sempre più a Shakespeare. Esordisce a Broadway nel 1934. Nel 1937, insieme al produttore John Houseman, fonda il Mercury Theatre. Inizia la collaborazione con Joseph Cotten, suo futuro alter ego sul grande schermo.

La RKO lo scrittura per produrre radiodrammi. Il successo galeotto de La guerra dei mondi gli frutta il contratto cinematografico più vantaggioso che sia mai stato proposto ad un esordiente. Inadempienze, ritardi nella lavorazione, pause per seguire altri progetti contro la volontà della produzione sembrano però troncare la sua carriera dopo solo tre film.

Recita in film altrui e riesce a tornare alla regia con thriller come Lo straniero (1945), in cui interpreta un criminale nazista latitante nella tranquilla provincia americana, e La signora di Shanghai (1947), che gli dà modo di ribadire il suo convinto antifascismo. Guai con il fisco, insuccessi commerciali a Broadway, una fama presso i produttori che peggiora a vista d’occhio. Riesce miracolosamente a completare Macbeth (1948) con un budget irrisorio. Nel 1949, il ruolo forse più “wellesiano” della sua carriera, quello del losco Harry Lime ne Il terzo uomo, diretto però da Carol Reed. I primi anni ’50 sono quelli di Othello e Rapporto confidenziale, girati con mezzi di fortuna, raggranellando fondi tra Europa, America e Marocco.

Rientra temporaneamente a Hollywood nel 1957. Ha fatto un patto con il produttore Albert Zugsmith: accetterà il peggior copione che giaccia nei cassetti della Universal. Nasce così, quasi per scommessa, uno dei massimi capolavori della storia del cinema: L’infernale Quinlan, noir dall’atmosfera sordida e degradata, ambientato in una cittadina al confine tra USA e Messico, con l’integerrimo e azzimato poliziotto messicano Charlton Heston e il violento e pericoloso collega americano Welles costretti a condurre insieme le indagini su un omicidio eccellente.

L’ultimo lavoro che riesca a concludere è F for fake (1975), documentario dedicato al suo tema preferito: il falso, l’inganno come filosofia di base dell’arte. Per anni Peter Bogdanovich, amico e collaboratore di Welles, è stato impegnato per completare il montaggio di The other side of the wind, bloccato dal 1973 per una lunghissima controversia legale, che Welles gli avrebbe lasciato in custodia dicendogli: “Finiscilo tu se dovesse succedermi qualcosa”. Lo scorso ottobre l’uscita del film in America era stata annunciata proprio per il 6 maggio 2015, giorno del centenario. Ma l’impresa sarebbe invece ancora lontana dal traguardo.

Quando Orson Welles muore, il 10 ottobre 1985, il bilancio della sua filmografia è di soli 12 titoli completati, più un universo di progetti incompiuti, lasciati a metà per mancanza di soldi, finiti e mai montati, mutilati da misteriosi furti di bobine come Il mercante di Venezia, alcuni completati dopo la sua morte e usciti postumi, come It’s all true e Don Chisciotte, altri fatti vivere a sprazzi, con qualche ciak furtivo nel corso degli anni, altri ancora mai emersi dal mare di appunti, disegni, storyboard raccolti e riordinati dalla sua compagna e musa degli ultimi 25 anni, l’attrice croata Oja Kodar. Quasi sempre sono idee per film ambiziosissimi: Moby Dick, Delitto e castigo, Cuore di tenebra, Cyrano, Re Lear, un biopic su Enrico Caruso e tanti altri.

Per finanziare i suoi grandiosi progetti ha lavorato come attore e doppiatore, accettando i ruoli più disparati in giro per il mondo, alcuni incredibili. Ha fatto spot pubblicitari (per un whisky giapponese ad esempio), è diventato ospite fisso in molti programmi tv, tra cui il Muppet Show. Nel 1953 viene diretto da Steno al fianco di Totò ne L’uomo, la bestia e la virtù, tratto da Pirandello. In Ro.Go.Pa.G. (1963), interpreta per Pasolini il celebre episodio La ricotta. Nel ‘69 prende parte allo spaghetti western Tepepa di Giulio Petroni. Nel 1981 è la voce narrante de La pazza storia del mondo – parte I di Mel Brooks. L’ultima “performance” esce postuma nel 1986: ha dato la sua voce al film d’animazione Transformers: The Movie. Il Genio che si svende? Tutt’altro. Si prende la sua rivincita, usando l’industria dello spettacolo come un bancomat, senza guardare in faccia nessuno, per poter edificare, mattone dopo mattone, il proprio personale universo filmico, fatto non solo di opere compiute ma di frammenti, scene isolate, progetti rimasti aperti, autentici aforismi cinematografici.

 

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