La luce dei miei occhi al Teatro Prati

La luce dei miei occhi al Teatro Prati

La luce dei miei occhi al Teatro Prati di Roma è una pièce che parla al cuore, mettendo in scena alcuni temi scottanti della modernità come l’omofobia, il razzismo e il rapporto genitore-figli

Nel cuore del quartiere Prati di Roma c’è una gemma che, nel corso dei decenni, ha contribuito a tracciare, seppur in piccolo, la storia teatrale del nostro Paese. Al Teatro Prati, diretto oggi da Fabio Gravina, sono custodite in una teca i cimeli di quel glorioso passato. A voi la curiosità di scoprirli.

Ed è qui che, fino al 31 maggio, è in scena uno spettacolo che fa bene al cuore. Uno spettacolo che, nella migliore tradizione teatrale della Commedia all’italiana, rappresenta, dionisicamente, la vita. Noi crediamo, insieme a quegli attori che portano avanti in tutta Italia progetti simili, che sia proprio questa la strada per ripartire, riaccendendo la scintilla della passione nelle nuove generazioni, ipnotizzate e “deculturalizzate” dai processi televisivi. La luce dei miei occhi, pièce scritta, diretta e interpretata da Fabio Gravina, racconta, in maniera disincantata, delicata, pungente ma mai corrosiva, una ferita ancora aperta nella nostra società: l’omofobia.

In una casa sfarzosa, dove il mobilio e la metratura quadrata ostentano sfacciatamente il potere del parvenu Cesare Leone (Fabio Gravina), si consuma il dramma borghese delle famiglie Leone e Vandelli. Le loro due figlie, Martina e Francesca, sono infatti fuggite per potersi amare in libertà e senza pregiudizi. Un amore che, per la quasi totalità del primo atto, Cesare non riesce ad afferrare proprio per il suo pensiero retrogrado e bigotto. Per lui è solamente l’ennesimo capriccio di una figlia viziata e irriconoscente. Ma l’amore tra queste due adolescenti era già sbocciato da tempo, da ben cinque anni sui campi di calcetto. Ne erano consapevoli Marta Leone (Paola Riolo) e i coniugi Vandelli, Giorgio (Pierre Bresolin) e Cristina (Irma Ciaramella). Impossibile rivelare a Cesare questo loro sentimento genuino, lui che è così burbero, poco incline alla famiglia e al dialogo padre-figlia, ma ben più attento all’onore e alla moralità.

Si è rotto la schiena per regalare ai suoi cari una vita di sfarzi (una prigione d’oro la definisce la moglie Marta), senza far mai mancare loro nulla se non l’affetto di un padre. Perché Cesare è fermamente convinto che con il denaro si possa comprare tutto, anche la felicità. E così cerca di risolvere la situazione, definita da lui imbarazzante, scaricando le colpe sulla moglie e immaginando di risolvere l’equivoco con i soldi, irrompendo e offendendo la sfera dei sentimenti di un padre che ha sofferto quanto lui ma che ha impiegato meno tempo ad accettare la realtà. Da quel momento per il protagonista inizia una profonda riflessione su quella che credeva essere “una vita perfetta”…

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Il vero successo de La luce dei miei occhi è da ascrivere sia alle numerose chiavi di letture offerte al pubblico sia alla capacità di affabulazione e recitazione dei cinque protagonisti. Noi apparteniamo a quella scuola di pensiero secondo cui è il testo a giocare il ruolo fondamentale nella rappresentazione scenica. E il testo scritto da Fabio Gravina è intelligente, ben strutturato e pronto a coinvolgere lo spettatore toccandogli le corde del cuore.

Si parla di omosessualità ma anche di razzismo, del delicato rapporto genitori-figli con le sue numerose incomprensioni dettate dal modo diverso di intendere e vivere la vita, dei precari giochi di equilibrio all’interno di un matrimonio e della tragedia dell’infanzia, per scriverla alla Savinio. Tutti temi che la scrittura in punta di lapis propone senza risolverli, stimolando nel pubblico una riflessione più profonda. I cinque protagonisti sono ben costruiti: ognuno ha una propria verità da portare avanti, uno sfogo che trova la sua valvola in monologhi accorati e pungenti.

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È piacevole assistere alla recitazione dei cinque attori, ciascuno calato perfettamente nei panni del suo personaggio. C’è affiatamento fra loro, una complicità che va oltre i dialoghi, le battute. Se il mattatore assoluto è Fabio Gravina, il capro espiatorio di questa “tragedia quotidiana”, Pierre Bresolin (che ritroviamo con piacere) è la spalla perfetta. Convincono anche le prove di Paola Riolo e Irma Ciaramella, quest’ultima in grado di imprimere alla scena la giusta verve ed energia. L’unico personaggio-macchietta è Alfredo, il maggiordomo di casa Leone, interpretato dall’istrionico Tito Manganelli.

Con La luce dei miei occhi si ride (e tanto), ma si riflette. Non è mai una risata sterile, fine a sé stessa, scatenata ricorrendo ai classici meccanismi (o trucchetti) teatrali. Si ride per non piangere. Su un punto non siamo d’accordo con il direttore artistico Gravina quando definisce l’opera una tragicommedia: la tragedia di questa storia di tutti i giorni non si consuma mai, pende sulle teste degli spettatori come una spada di Damocle ma non arriva mai al suo compimento. Perché, in fondo al tunnel della depressione e della paura, si intravede un barlume, la speranza di un riscatto esistenziale che passa attraverso un peluche. Un peluche simbolo di amore e redenzione.

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