Cassiopea – Racconti da Kosovo

Cassiopea - Racconti da Kosovo

Cassiopea mi guarda sopra la mia casetta in Kosovo. La sua V doppia è sempre stata lì, sopra la lampadina che illumina la mia vietta di fango da calpestare e di fogna da odorare.

È stata lì in tutte le stagioni.

Che poi magari si è spostata, ma io cercavo sempre lei. Tra le nuvole, tra le stelle, tra i codirossi, e non gli usignoli, che il mio ornitologo di fiducia mi ha consigliato essere una delle poche specie di uccello che canta di notte.

Stasera ho bevuto un paio di birre Skopsko e un paio di pelinkovac.
Una birra nel mio villaggio costa zero virgola settantacinque centesimi di euro. La mia preferita è la Skopsko, birra macedone, che arriva da Skopje. È anche la preferita di molti ragazzi del villaggio. Lo è perché su un lato della bottiglia la scritta Skopsko è in caratteri cirillici, lo è perché durante la guerra le casse di questa birra riuscivano a superare la dogana di Hani i Elezit tra Kosovo e Macedonia. O, più probabile, passavano lungo i valichi innevati e arguti della Šar Planina.
Sulle pendici della Šar Planina, dal lato kosovaro, ci sono molti villaggi serbi, tra i più importanti Brezovica e Štrpce. In questa area, lungo la magnifica e verde statale che da Prizren porta a Ferizaj (Uroševac in serbo), i serbi sono anche più di diecimila. Rispetto al mio villaggio di Hoča, qui sembra esserci molta più libertà. Lo noto soprattutto anche nel modo di vestire. Nel bel mezzo di una domenica pomeriggio, vedo ragazze vestite con tacchi e vestitini abbastanza succinti e ragazzi nella versione ‘macho serbo’.

Cassiopea mi guarda sulla mia casetta.
È il mio ultimo sabato notte di Kosovo. Nella kafana che hanno aperto un paio di mesi fa c’è appena stata una piccola zurka, festa, per me, organizzata dai ragazzi del villaggio e da ‘las chicas’, le ragazze che hanno seguito il corso di spagnolo tenuto dalla mia collega Martina.

Stasera Marija mi ha chiesto perché sono stato qui. Io ho risposto perché questo era il mio lavoro. Poi mi ha chiesto quale era il mio lavoro. Beh, stare qui.
La pelinkovac avrà fatto i suoi effetti, ma non trovo altre risposte. D’altronde costa zero virgola cinquantotto centesimi di euro al bicchiere. A me gli amari come questo garbano parecchio, stile Cynar, Braulio, Fernet Branca.
Bojana mi ha insegnato i passi del Kolo, il tradizionale ballo serbo che le donne danzano durante matrimoni, slave, compleanni. Ho imparato la versione più stupida di questo ballo, quella che proviene da Uzice, la uzičko.
Due passi a destra con entrambe le gambe, passo avanti con la sinistra, passo avanti con la destra, passo avanti con la sinistra e due passi a sinistra con entrambe le gambe. A ripetizione e viceversa. All’infinito. E viceversa.

Milorad, Jovan e Sima mi hanno offerto tutto quello che ho bevuto stasera. Ma sono felice perché domani offrirò io la cena a loro. E perché qualche volta sono davvero riuscito a offrire a loro. Una cara amica serba, una volta, mi aveva detto che questo sarebbe stato uno dei passi che avrebbe segnato la mia integrazione nel villaggio.
Un’altra ragazza del villaggio ha raccontato stasera, anche se lontano dalle mie orecchie, che lei odia gli Stati Uniti perché per anni ha avuto un ordigno inesploso sull’uscio di casa. Su di esso, come un marchio, campeggiava la bandiera a stelle e strisce. La famiglia ha creato un’altra uscita, parallela a quella originaria, per uscire di casa, fino al momento in cui, dopo anni, hanno finalmente avuto i soldi per rimuovere l’ordigno.

Cassiopea mi guarda dalla mia casetta.
Prima di entrare in casa, decido di passeggiare sulla collina un attimo. Ho proprio il desiderio di farlo, dopo aver ripetutamente avuto paura di quel sentiero buio. Anche di giorno.
Comunque, per tanti giorni l’ho percorso di corsa, con la pioggia e il fango umido, con le cicale che rompevano un silenzio di sole e di azzurro, con uomini e il loro sudore al sapor d’uva che mi guardavano confusi correre con un telefonino in mano. Perché il cronometro l’ho lasciato tra le comodità bustocche, perché correre in mezzo ai vigneti è sempre stato uno dei miei sogni e un cronometro non poteva fermarmi.
Correvo in questo sentiero sulla cresta della collina, dove da un lato avevo vigneti albanesi, dall’altro serbi. Ripetutamente, incrociavo vignaioli ai quali non sapevo se dire tung o zdravo, i loro ciao, mire dita o dober dan, i loro buongiorno. Spesso sbagliavo.
Ora passeggio in questo sentiero e ripenso a questi sette mesi. Mentre schiaccio gusci di lumache che mi ricordano la mia nonna e cerco con lo sguardo quei gufi che sento da sempre. Vedo dei lampi in lontananza, probabilmente sopra Mala Hoča, sopra una delle più strepitose strade di questa zona, quella che da Orahovac porta a Prizren. Strada di nazionalisti albanesi, dove tutti, anche i serbi più sbruffoni, mi dicono la stessa cosa, “qui è meglio non fermarsi, neanche per pisciare”.

Un rospo saltella davanti a me e si infila sotto il ponticello del ruscello appena sotto casa mia. Potok, ruscello disabitato di rifiuti di qualsiasi tipo, anche di un gommone rosa fosforescente. La mia vicina di casa, ogni mattina, si avvicina lentamente e scarica l’immondizia nelle sue acque.
Questa è una delle due alternative per lo smaltimento, o il non smaltimento, dei rifiuti nel mio piccolo villaggio. La seconda alternativa è riempire il classico bidone verde e portarlo ogni martedì sera a inizio via. Il mercoledì mattina l’addetto passa con il suo trattore satollo di immondizia e la porta a inizio villaggio, vicino alla statale principale e accende un piccolo falò. Durante l’estate e la primavera questo falò viene acceso al tramonto, l’odore sarebbe impresentabile.

Cassiopea mi guarda nella mia casetta.
Ma io non la vedo più oramai. Sono nascosto nelle quattro mura di stufa da accendere e di wifi da elemosinare.
Da pochi giorni ho spostato il letto nella mia camera. Il freddo l’ha resa inutilizzabile da quando sono qui, da novembre. Purtroppo, ho dormito tra queste quattro mura, simpaticamente colorate di verde azzurro, solo poche settimane.
Domattina riassaporerò per l’ultima volta il caffè turco con la djezva rossa, la moka dei Balcani, lo yogurt non scaduto solo perché lo dice la data di scadenza sul cartone, come altri prodotti, e i biscotti Noblice, nella versione classica, al cioccolato al latte.

Ripenso a tutte queste cose stanotte.
Ripenso a quello che è stato il Kosovo per me. Come in una di quelle macchine che si trovano nelle biblioteche, con le quali si possono leggere i quotidiani del passato in modalità microfilm, ruoto la manopola e ricordo.

Il monastero di Dečani, le chiavi grosse che aprono chiesette piccole, le urla dei maiali, i bicchierini colmi di rakija, i cieli stupendi, i bimbi che mangiano gelati regalati, il legno da dipingere, le misure da prendere, le botti invecchiate, il monastero di Devine Voda, la pelle solcata dalle rughe, i bastoni che aiutano anziani, le barbe lunghe, gli incensi da ascoltare, le voci da portarsi dentro, dober dan, i vigneti, le serre turche, le colline sinuose, l’amaca, il monastero di Draganac, le cime bianche in lontananza, le macchine bruciate e distrutte come monumento, la kafana, il limite a quaranta all’ora, i cevapcici, hvala, il concessionario albanese, la Prizrenska Bistrica, cioè il fiume di Prizren, i dolci serbi a qualsiasi ora, i pasti serbi a qualsiasi ora, la pizzeria Tropicana, il batak, cioè la coscia di pollo, i tramonti mozzafiato, il sorriso di Boris, il kaymak di Leposavić, le targhe, prima la carta d’identità, poi il passaporto, o viceversa, molim, Partizan contro Crvena Zvezda, il meccanico di Gusterica, il monastero di Gračanica, gli anacardi, sempre, il coltellino con il nome in cirillico, il burek di formaggio, i ponti in pietra, il mate argentino in Kosovo, la pelinkovac, le noci, il pullman di notte, il patriarcato di Peć, le sveglie all’alba, arrivare a Durazzo di mattino presto, che vuol dire viaggiare di notte tra le alpi albanesi, il sorriso della mia vicina di casa, l’odore dei tigli, il seminario di Prizren, il gommista di Orahovac, Sveti Trifun, la Yugo rossa, il monastero di Zoćiste, il traffico senza senso, i meno ventinove gradi a capodanno, la cremina che fa il caffè turco e la polvere che lascia sul fondo, il burek di carne, i kombi, cioè i pulmini, che hanno sempre problemi, Novak Djokovic, il terrazzo delle due Juventus-Real Madrid, la neve ad aprile, i cornetti gelato a trentatré centesimi, l’ospitalità, la gentilezza, l’accorgersi che ero solo, l’abbraccio, il “desi”, caro, urlato a distanza, i trentacinque scalini per scendere a casa mia, i trentacinque scalini per raggiungere la piazza del villaggio, il girare attorno a una chiesa, il supermercato ETC, l’uscire dal proprio villaggio, l’entrare nelle case altrui, la legna da tagliare in pezzi piccoli, medi e grandi, l’attesa del caldo della stufa, il freddo bastardo nelle stanze non riscaldate, le partite a basket nel cortile della scuola, lo yogurt da bere a pranzo, le partite a calcio nel campo in fondo, prima del bosco, l’ajran, cioè lo yogurt salato, Gazimestan, la esse cirillica, il bozur, cioè il fiore rosso che cresce rosso solo in Kosovo e rappresenta il martirio dei serbi, il kos, cioè il merlo nero.

Cassiopea sarà anche da qualche altra parte.

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