Immagini, profumi, rumori. Ode a Sarajevo

Sarajevo è una e un’altra. Sarajevo è spigolosa. Sarajevo è una storia tutta da raccontare, soprattutto in una mattina di luglio mentre sta aprendo gli occhi.

Sarajevo brontola i clacson e fa bollire l’acqua per il caffé alla turca.

E si stiracchia i muscoli spigolosi.

Sta aprendo gli occhi di una mattina di luglio. Io apro una piccola finestrella e rimiro il cielo rosazzurro che si trucca.

Sarajevo sta a guardare, mentre la Miljacka fa da specchio a nuvole che vorrebbero non passare più.

Il mio piede sinistro arranca sul lenzuolo mal piegato, con la tenda copro la luce che entra. Voglio che rimanga là fuori. Rialzo la testa ed appoggio i gomiti sul tetto del mio ostello. Le tegole rosse mi inteneriscono, mentre Sarajevo mi inorgoglisce.

Mi sento parte di questa città come di nessun’altra.

Mi lascio scivolare dalle scale e cerco quella soddisfazione che mi completa.

La baščaršija mi attende, io mi lascio guidare dai foulard neri delle vecchine musulmane, dalla sahovnica biancorossa mostrata con forza in alcuni negozi, dalle quattro esse cirilliche che campeggiano sui muri.

Sarajevo è una e un’altra. E un’altra. Sarajevo è spigolosa.

Inutile ammattire e cercare di parteggiare. Lei non ci chiede questo.

Non ci chiede di giudicarla. Al massimo di giustificarla se un secolo fa è stata la scintilla. Ma lei sa che se non fosse stata qui, sarebbe stata là.

Sarajevo sta a maniche corte, il sole è un cecchino che prende posizione su un hotel.

Ma fa bollire comunque l’acqua per il caffé alla turca.

La Miljacka passeggia sotto il ponte Vrbanj e carezza il viso di Suada. La prima di tante.

Mi perdo come una biglia nella sabbia tra il ciottolato e l’odore di ćevapčići.

Mi perdo puntando prima la punta dei piedi, poi il tallone. A Sarajevo non c’è riposo, solo fatica, si cammina su e giù tra le scarpe lasciate fuori, le croci lasciate spaccate sul campanile e le barbe dei pope lasciate crescere.

Sarajevo è una e un’altra. E un’altra. Sarajevo è spigolosa.

Ci chiede di comprenderla. Lei fa il possibile per non dividersi, nonostante l’assedio e le granate.

Sarajevo è forzuta e resiste.

E resiste la Skola Technicka.

E resiste la Biblioteka.

Sarajevo si copre ed indossa una felpa con il cappuccio e i cordini al collo.

Anche a luglio, la sera, tra i monti, non si scherza.

Mi siedo di fianco ad Alija, uno dei tanti sepolti tra le colline. Colline piene di cimiteri senza recinti e senza porte di ingresso perché il cimitero è uno spazio. Come da noi è una piazza.

Ci si ritrova sulle panchine di legno, in mezzo a chi ha servito Sarajevo. A chi l’ha difesa, a chi l’ha attaccata.

Testa in giù, guardo le stelle, aspettando che le nuvole passino e se ne vadano via.

Tutto passa, Sarajevo lo sa.

E tutte le notti va a riposare sulle rive della Miljacka.

E lì mettono l’acqua a bollire per l’ultimo caffé alla turca della giornata.

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