Luca Elmi, intervista al “Roman citizen” d’America

luca elmi

Quattro chiacchiere con Luca Elmi, regista del film “Roman Citizen”, ci sono bastate per scoprire un mondo ricco, fatto di viaggi, interpretazioni e riflessioni.

Luca Elmi è un regista, un attore, uno sceneggiatore. Uno, insomma, che di schermo (piccolo e grande), di arte e di spettacolo ne capisce.

Luca Elmi è un professionista conosciuto e apprezzato (anche all’estero) e allo stesso tempo è entusiasta di fronte alla richiesta di fargli qualche domanda, solo però se sei disposta a dargli del tu e a lasciarti trasportare in una conversazione che di standard ha ben poco.

“Il nostro mondo, la nostra cultura, la nostra società, il teatro, la televisione, il cinema sono tutti impestati da innegabili e catastrofiche fregnacce.
Quello che io faccio – da sempre – è fatto per passione, per convinzione e per amore. Tutto il resto non mi interessa.” Con questo spirito si apre il suo sito web, lo stesso spirito che pervade la nostra ricca chiacchierata.

Lo scorso 6 dicembre hai presentato in anteprima europea ad Amarcort il tuo ultimo lungometraggio “Roman Citizen”, già pluripremiato all’estero. Di cosa parla il film?

In effetti la presentazione del 6 è stata la prima e probabilmente l’unica volta in Europa in cui il film è stato mostrato con la durata originale. Ora è diventato un vero “lungo” da 52 minuti e forse potremmo farne un episodio pilota per una serie… Comunque, tornando alla trama: il film è la storia di una rapina che maschera in realtà un omicidio di vendetta per un fatto avvenuto anni prima alla protagonista. Per alcuni versi può sembrare simile ad “Inside Man” di Spike Lee. Ad esempio, nella scena in cui i rapinatori fanno vestire come loro gli ostaggi, in modo da confondere la polizia. Ma in realtà la storia che sta dietro la rapina è completamente diversa. E pensare, poi, che quel film non lo avevo neanche visto!

Quanto sono durate le riprese del film?

Abbiamo iniziato a girare nell’estate 2014 e le riprese sono state più lunghe di quanto pensassi. Il mio “problema” è che se faccio film voglio che siano fatti bene, come dei veri prodotti cinematografici. “Roman Citizen”, ad esempio, è molto americano: sparatorie, azione, una trama intensa..

Proprio a proposito dell’ “americano” di cui hai parlato, da dove nasce l’idea di girare il film interamente in Kentucky?

In effetti il Kentucky non è propriamente uno Stato dove si girino film, pensa che dopo la nostra produzione hanno presentato una legge sull’abbattimento fiscale, già presente in molti altri territori statunitensi. Un modo per incentivare a girare sul proprio suolo, a differenza dell’Italia dove ho avuto grandi difficoltà anche solo per mostrare qualche scorcio di monumento o di città. Comunque, la scelta del Kentucky è stata dovuta in realtà al fatto che ho conosciuto un produttore che ha la sua “base” proprio lì. Appena conosciuti ci siamo stati simpatici e mi ha conquistato, soprattutto con le immagini di una banca lì in Kentucky: lo scenario perfetto per il girato che avevo in mente.

Paesaggi americani e, però, un titolo che – nonostante l’inglesismo – sembra richiamare le tue origini italiane. Come mai questa scelta?

Questo titolo è stato spesso frainteso, in effetti. Molti, a primo impatto, pensano sia un film di storia romana e poi invece si trovano catapultati in un film d’azione interamente ambientato ai giorni nostri. In realtà il “Roman citizen” del titolo è ben racchiuso nel personaggio della poliziotta che si contrappone alla protagonista: una donna che, pur capendo le motivazioni che hanno spinto la donna che ha davanti ad agire in quel modo, non può prescindere dal suo ruolo. Come un cittadino di Roma che deve difendere la sua città dall’attacco dei barbari, dei non-cittadini. Questo è forse uno dei rimandi più espliciti al “mondo romano”, ma qua e là nel film si possono trovare molti altri riferimenti.

La tua carriera è ricca di riconoscimenti, molti dei quali ottenuti negli Stati Uniti. Pensi che all’estero le possibilità di farcela siano maggiori, anche per i nuovi registi che decidono di affacciarsi al mondo dello spettacolo?

Sono stato molto in America e posso dire di conoscerla bene. Il mercato, lì, viaggia sul talento, ma allo stesso tempo sei circondato, di talento. Per me il cinema l’hanno inventato loro; si può criticare, ora, il contenuto magari, ma per tecnica e capacità artistica penso che non ci siano ancora paragoni. Quindi mettersi in mezzo ai “braverrimi” non è facile. Io cerco di “fare là e portare qua”, contro l’appiattimento culturale che mi sembra ci stia un po’ colpendo. Contemporaneamente porterei lì l’italia ma, come dicevo prima, a volte è anche difficile girare qualche scena nel centro di Milano.

Quindi un’America che “vince” sull’Italia su tutti i fronti?

In realtà no. Girare in America è “perfetto”. Ma qui è divertente. Io penso che un film sia artigianale, unico. Negli Stati Uniti sono invece riusciti a farlo diventare industriale. Può rischiare di sembrare banale, ma per me un film è come un viaggio, con uno scopo. Viaggiare con il tipo perfettino è più facile; però dopo un po’.. Che noia! Invece magari in un viaggio in cui non sia tutto perfettamente calcolato può uscire quell’inquadratura esclusiva, quel raggio di sole che dà un tocco particolare alla scena..
Quel che però stiamo rischiando di perdere è la qualità. Il cinema italiano oggi sembra tutto uguale. Non abbiamo più il mattatore di una volta, il Tognazzi per intenderci. Oggi ci troviamo sempre più spesso di fronte o a figli d’arte o a trame di film studiate in base alle caratteristiche degli attori specifici. E, in questo modo, si rischia di perdere. Tanto.

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