Il cinema “cannibale” di Lucio Fulci

Lucio Fulci

Vent’anni fa la scomparsa di uno degli autori più radicali, estremi e rivoluzionari del nostro cinema. Dopo gli esordi nella commedia, Lucio Fulci diventa un regista di culto negli anni ’70 e ’80 con i suoi gialli rigorosi e scientifici e i suoi horror deliranti e sanguinari. Tra i suoi fan eccellenti, Quentin Tarantino.

Da ragazzo si guadagna una certa fama come portiere di calcio dopo aver parato un rigore a Valentino Mazzola. La vita lo porta lontano dal mondo del pallone ma l’episodio sembra un paradigma perfetto dell’esistenza e dell’opera di Lucio Fulci. Un Davide perennemente in lotta, quasi sempre vittoriosa, contro Golia. Un artigiano del cinema (definizione che ama molto) che ha combattuto contro budget ridotti, anatemi della critica, preoccupazioni dei produttori, cretinismi, invidie e meschinità dello star system, accreditandosi come il padre nobile del “cinema estremo” italiano.

Il genere che gli dà la gloria è l’horror ma la forza del regista romano è la sua lunga gavetta da soggettista, sceneggiatore, aiuto-regista, attraverso le mille declinazioni nazional-popolari del cinema italiano anni ‘50: commedia, comico, western, poliziesco, musicale, etc. A prima vista, quanto di più lontano potrebbe esserci dalla formazione di un cineasta del terrore, un filone che dovrebbe rifiutare gli stereotipi e puntare a spiazzare continuamente lo spettatore. Nell’industria del cinema di cassetta, lavorando sulla meccanica di precisione dei tempi comici, sulla solennità sempre più ironica dei peplum, sulle regole ferree dei duelli tra pistoleri che, di lì a poco, verranno fatte detonare dallo Spaghetti western, Fulci matura l’intuizione che diviene il suo marchio di fabbrica: il “genere”, con i suoi schemi e le sue regole seriali, serve a soddisfare la perenne fame di cinema delle platee. Ma questi schemi e regole possono, anzi devono, essere sovvertiti per poter scioccare a dovere il pubblico.

Ribelle per natura, carattere impetuoso, burbero e irascibile, ma anche umano e dotato di grande ironia, nella sua immensa biblioteca Fulci studia freneticamente Edgar Allan Poe, H.P. Lovecraft e molti altri autori. Riversa questa cultura rabbiosa e onnivora in film che vengono divorati dal pubblico e in due raccolte di racconti: Le lune nere e Miei mostri adorati. Un “cinema cannibale” il suo, che non a caso incrocerà il mondo degli zombi.

Quando Lucio Fulci nasce a Roma il 7 giugno 1927, i suoi genitori si sono già separati. Studia al Convitto Nazionale; per tre anni frequenta il Collegio Navale di Venezia; torna nella Capitale e completa gli studi al Liceo Giulio Cesare. Per volere della madre si iscrive a Medicina. Sul conseguimento o meno della laurea le fonti sono discordi, ma sicuramente lo studio influenzerà il suo modo freddo ma implacabile di filmare la violenza. Inizia a fare politica nel PCI. Nel 1948 viene arrestato durante i disordini successivi all’attentato a Togliatti.

Scrive come critico cinematografico per Il Messaggero e La Gazzetta delle Arti. Viene ammesso a pieni voti all’Istituto Sperimentale di Cinematografia. Con l’amico Elio Petri elabora due sceneggiature che non saranno mai realizzate; lavora come aiuto-regista e sceneggiatore e diventa uomo di fiducia di Steno e di Totò per molti film. È il Principe a farlo esordire come regista, richiedendolo esplicitamente per dirigere I ladri (1959). Nello stesso anno, con I ragazzi del Juke-box, Fulci fa debuttare nel cinema un 21enne Adriano Celentano.

Negli anni ’60 inizia la lunga collaborazione con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, che durerà 13 film. Gira numerosi western con le star del momento Franco Nero, Tomas Milian, Giuliano Gemma.

Anche nella commedia non perde mai il suo gusto per l’estremo e per la provocazione. Nel 1972 dirige Lando Buzzanca in All’onorevole piacciono le donne, film che avrà notevoli problemi ad arrivare nelle sale, tra l’altro per la notevole somiglianza del protagonista con Emilio Colombo. Nel 1976, altre schermaglie con la censura per il primo nudo integrale di Edwige Fenech ne La pretora.

Alla fine degli anni ’60 trova la sua strada nel thriller, con titoli come Una sull’altra, Una lucertola con la pelle di donna, Non si sevizia un paperino, Sette note in nero. Nel 1979, a 52 anni, per il regista inizia una nuova vita artistica nel segno dell’horror, con Zombi 2 che, nonostante il titolo, non ha nulla a che fare con il film di George A. Romero. Se i gialli di Fulci sono metodici, rigorosi e scientifici, i suoi horror saranno eccessivi e visionari. Paura nella città dei morti viventi, Black cat, L’aldilà, Quella villa accanto al cimitero e molti altri vengono automaticamente relegati dalla critica nel purgatorio dei B-movies ma riscuotono consensi eccellenti all’estero.

Negli anni ’80 si concede incursioni nel fantasy con Conquest e nella fantascienza con I guerrieri dell’anno 2072. Nei suoi ultimi anni di vita, il regista dichiara la sua ammirazione per Quentin Tarantino. Una stima che il ragazzo terribile di Knoxville ricambierà in pieno, inserendo pubblicamente Lucio Fulci tra i suoi autori di riferimento. Basti pensare agli omaggi presenti in Kill Bill, con la colonna sonora di Sette note in nero a scandire il risveglio di Uma Thurman dal coma e la citazione dell’occhio strappato, motivo ricorrente nell’iconografia fulciana. Anche l’uso ironico della musica sulla sequenza del taglio dell’orecchio ne Le iene sembra rimandare al massacro di Florinda Bolkan in Non si sevizia un paperino.

Quando Fulci se ne va, il 13 marzo 1996, i Cahiers du Cinema lo definiscono “il poeta della morte”. Solo dopo la sua scomparsa, anche in Italia si inizierà a rivalutare un autore che ha dedicato la propria carriera alla costruzione di una nuova estetica della paura, sanguinosa e truculenta ma segnata da un netto giudizio morale contro la violenza.

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