Refugee Olympic Team: fenomenologia di una rivalsa

Refugee Olympic Team

Sinonimo di sport come archetipo dell’integrazione e frontiera del linguaggio universale, in poche parole: “Refugee Olympic Team”.

Questa è la storia di un riscatto sicuramente personale ma ancor più universale (sfociato poi nella creazione del Refugee Olympic Team) di un modello di integrazione, solidarietà e cooperazione esemplare, a dimostrazione concreta che un abbattimento delle frontiere tra diverse culture “Si può”.

Questa è la storia di una ragazza siriana di nome Yusra Mardini e del suo amore incondizionato per il nuoto, rappresentazione di un’istanza di salvezza, così come per l’umanità.

In principio, era il “disastro”; l’incipit della vicenda di questa eroina in realtà potrà sembrare identico, perlomeno simile, a quello di tante altre: Yusra è una ragazza di nemmeno venti anni con migliaia di ambizioni e sogni da realizzare e con l’unica “colpa” di essere nata in un luogo che non glielo consente, Damasco, città della sua primigenia cultura e della sua percezione d’identità ma anche luogo ostile fatto di guerre e sanguinosi conflitti, di lacrime versate, di vite spezzate, di desideri infranti.

E’ agosto 2015: con la disillusione di una possibile pacificazione negli occhi a seguito di un bombardamento che colpisce la sua casa, Yusra, armata di coraggio e consapevolezza delle proprie incredibili capacità (che del resto nel 2012 l’avevano perfino condotta a rappresentare la Siria nei FINA World Swimming Championships), decide di partire insieme alla sorella Sarah, zaino in spalla e la promessa di un futuro diverso che nel suo immaginario vuol dire Berlino, simbolo di una “terra promessa”.

Yusra nei Refugee

La rotta è quella di tanti altri migranti che, come lei, decidono di fuggire senza guardarsi indietro: raggiunto il Libano arriva poi in Turchia, dove a Izmir decide di imbarcarsi sola andata per la Grecia insieme ad altre venti persone; qui inizia la vera impresa: il “traghetto” infatti, che potrebbe trasportarne al massimo sette, comincia a dare segni di cedimento, si blocca in mezzo al mare e, come se non bastasse, imbarca acqua.

La resa senza condizioni non è però minimamente contemplata da Yusra che con grande determinazione decide, con l’aiuto della sorella e di un’altra donna, di tuffarsi in acqua e di spingere l’imbarcazione per ben tre ore, fino all’approdo definitivo sull’isola di Lesbo.

Nasce così qualche mese dopo, quasi a legittimare questa istanza di salvezza e di chimera, il “Refugee Olympic Team” (per gli amici ROT), creato appositamente dal Comitato Olimpico Internazionale con l’obiettivo di riunire ed accogliere atleti di grande valore costretti non per propria volontà a dover necessariamente migrare dal paese d’origine. Degli iniziali quarantatré candidati ne sono stati selezionati dieci, sei uomini e quattro donne (tra cui ovviamente Yusra) che alla cerimonia inaugurale di Rio sfileranno dietro la bandiera del Comitato Olimpico, facendo da apripista al paese ospitante, simbolo forte di rivincita, di cooperazione e di integrazione tra diverse culture.

Refugee a RioTra i partecipanti anche Popole Misenga e l’amica Iolanda Bukasa Mabika, in fuga dal Congo per trovare una sistemazione, nemmeno a farlo di proposito, nei pressi di Rio, precisamente a Jacarepaguà, utilizzando il Judo come pratica demistificatoria dei propri fantasmi.

Lontano da ogni banale, esplicita e strumentalizzata retorica, questo racconto ha inevitabilmente in sé un messaggio positivo che è difficile ignorare: un lampo di luce che irrompe nelle tenebre delle guerre civili, un miraggio che si rivela in tutta la sua verità, un sorriso trionfante che vorrebbe semplicemente gridare “tutto è possibile”.

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