Rifugiati, percorsi di accoglienza e integrazione

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Rifugiati, non è una brutta parola, ma una condizione umana che necessita di aiuto e supporto. Così come viene realizzato dal centro per rifugiati SDP cooperativa sociale a Sassari.

Cosa significa essere dei rifugiati?

Un rifugio è un posto che fa ci sentire al sicuro, un posto che ci protegge dalle intemperie, sia metereologiche sia umane. Si ha bisogno di un rifugio perché le proprie condizioni di vita sono disagevoli, perché la propria esistenza è in pericolo, perché la propria casa è stata distrutta, perché si è perso tutto e si ha bisogno di un nuovo inizio. Non bisogna far cadere la maschera dell’ignoranza su questo concetto pensando che fenomeni come l’immigrazione nascono per portare scompiglio nelle condizioni del paese ospitante, ma nascono perché, per motivi esogeni, l’uomo è sempre stato portato a spostarsi e allontanarsi dalla sua terra.

Il centro SDP cooperativa sociale arl di Sassari

Il centro SDP cooperativa sociale arl di Sassari è un posto che protegge dalle intemperie della vita, che dà supporto e aiuto nel processo di accoglienza e integrazione dei giovani rifugiati che approdano in Sardegna. La cooperativa sociale lavora su 6 centri in tutta l’isola, ma quello situato nella città è il più grande e contiene ben 210 ragazzi provenienti dalla Libia, dal Senegal e dalla Nigeria.

Il percorso burocratico

Il percorso che i ragazzi devono affrontare appena arrivati in Italia è molto lungo: devono passare circa due anni per ottenere i documenti e avere un permesso di soggiorno per rimanere in Italia. La burocrazia è molto lenta ed è caratterizzata da molti step da superare per i rifugiati. Se hai fatto domanda alla questura per ottenere la giusta documentazione e questa è stata rigettata per ben due volte, la persona in questione deve tornare indietro nel suo paese. Purtroppo le regole sono molto ferree e solo circa il 3% di loro, secondo le statistiche, viene accettato. I numeri sono così bassi perché la Convenzione di Ginevra ritiene che una persona possa essere considerata un “rifugiato” solo se riesce a dimostrare di essere seriamente in pericolo e di non poter tornare nella propria terra natale.

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Un ragazzo rifugiato del Centro Servizi SDP Cooperativa Sociale

Le attività del centro SDP

“La noia è il peggior nemico di una convivenza pacifica e comune all’interno di una struttura specializzata” sostiene il direttore del Centro Rifugiati Pier Paolo Cermelli “la noia può portare i ragazzi a discutere fra di loro e litigare in malo modo…”. Per questo motivo, la struttura organizza delle attività per i rifugiati ospitati all’interno: innanzitutto delle lezioni di italiano da parte di professori volontari che si recano nel centro due o tre volte alla settimana per aiutare i ragazzi a conoscere meglio la lingua del nostro paese e poi, anche, due diversi percorsi, quello sportivo e quello lavorativo.

Lo sport può essere uno strumento inclusivo e aiutare in maniera educativa persone provenienti da diversi paesi a integrarsi fra di loro e questo è stato il caso della squadra di calcio PAGI, iscritta in seconda categoria. E’ la prima squadra di calcio in italia interamente formata da circa 50 ragazzi rifugiati.

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Squadra calcio PAGI

La questione lavorativa è molto più complicata, poiché i ragazzi non possono subito trovare lavoro. Però in attesa di trovare un’occupazione un po’ più stabile, di ottenere i documenti di permesso e se, soprattutto, hanno un comportamento esemplare, possono lavorare all’interno della struttura. E’ importante che qualcuno abbia il ruolo di “formare” i nuovi arrivati, aiutarli quindi a conoscere le regole del Centro, aiutarli a relazionarsi con gli altri e a cercare, successivamente un lavoro.

La struttura inoltre ha uno screening sulle abilità e le conoscenze possedute da ogni rifugiato: molti di loro hanno esperienza in lavori agricoli o manifatturieri, ma cercare di dare loro lezioni approfondite su questi argomenti è ancora problematico.

Le problematiche, chi resta e chi rimane

Non è facile riuscire a conciliare persone provenienti da diversi paesi, soprattutto quando vengono praticate diverse religioni all’interno della struttura. Vengono rispettate tutte le fedi  e ognuno può apporre la propria effigie religiosa, senza criticare o dissacrare quelle altrui. Per qualsiasi disputa che nasce tra i rifugiati, c’è un solo modo per risolverla: si discute e si parla insieme per arrivare ad un punto di riconciliazione, senza arrivare alle mani o alle parole forti. Ed è così che i direttori della struttura preferiscono gestire le questioni problematiche, ponendosi come giudici della disputa e cercando di portare le due parti al chiarimento.

Ad andar via sono soprattutto le famiglie, che cercano di farsi ospitare da parenti che vivono altrove o cercano rifugio in qualche altro paese. Di certo, dato che i rifugiati in Italia hanno un piccolo contributo mensile di 75 euro, devono necessariamente lavorare per poter vivere una vita dignitosa e, se questo non succede, si muovono verso altri paesi.

Chi resta all’interno della struttura viene seguito e incoraggiato nel percorso per trovare un’occupazione e talvolta inserito a lavorare all’interno del centro stesso. Infatti come sostiene Pier Paolo Cermelli: “solo se il lavoro dalla testa passa al cuore in ogni centro ti chiameranno mami e papi”.

* Tutte le informazioni sono state estrapolate da un’intervista realizzata durante la visita al Centro per rifugiati da parte del gruppo di ragazzi del Training Course “Password for Human Rights” a Sassari. L’immagine di copertina è stata scattata da Tami Teliashvili, ragazza della Georgia partecipante al corso di formazione, e ritrae i ragazzi e i direttori del Centro rifugiati, insieme ai ragazzi del training course.

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