Billy Wilder, maestro tra il vero e il falso

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Titoli come A qualcuno piace caldo, Quando la moglie è in vacanza, Prima pagina, Viale del tramonto.Sette Oscar e una vita trascorsa trasformando il dolore in ironia. Maestro del noir e della commedia, del giallo e del dramma, l’universo di Billy Wilder si basa sull’inganno e l’annullamento delle differenze tra vero e falso.

“La festa è finita”, grida Kirk Douglas alla folla nel finale de L’asso nella manica. Una miniera crollata. Un uomo in trappola. Sedici ore necessarie per liberarlo. Un giornalista senza scrupoli che riesce a ritardare i soccorsi di una settimana per avere il tempo di costruire un mega-evento da raccontare in esclusiva. Il circo mediatico. La tragedia che dannerà tutti. Nel 1951, quasi sette decenni prima che l’umanità scopra la guerra alle fake news (sempre quelle altrui, ovviamente), Billy Wilder partorisce una delle più lucide ed acuminate invettive che il cinema ricordi contro le aberrazioni della società mediatico-cannibale.

Un talento segnato dalla tragedia

Sotto il sarcasmo e la ferocia delle sue opere, si cela il baratro. La perdita della madre in un campo di sterminio nazista lo segna inevitabilmente ma gli conferisce anche una forza incrollabile. Tanto da proporsi, ultraottantenne, per dirigere Schindler’s list.

Vincitore di sette Oscar (spesso a spese di Alfred Hitchcock), maestro del noir e della commedia, autore di gialli e di drammi a tinte forti, Billy Wilder ha anticipato il concetto di “post-verità” sul grande schermo, con storie basate sull’inganno, l’annullamento delle differenze tra vero e falso, il travestimento, il doppio, triplo, quadruplo gioco.

Marilyn e le altre (e gli altri)

Oltre che di trame ricchissime, il suo cinema diventa una fucina di straordinarie prove attoriali. Costruisce personaggi femminili memorabili. Aggressivi come Gloria Swanson, diva del muto prigioniera del passato che continua a mentire a se stessa in Viale del tramonto, innamorata dello scrittore spiantato William Holden. O come Marlene Dietrich, inquietante moglie dell’imputato di omicidio Tyrone Power in Testimone d’accusa, giallo geniale come pochi, tratto da Agatha Christie, dominato dall’implacabile principe del foro Charles Laughton, intenzionato a scoprire una verità imperscrutabile (chi non lo ha visto non sa cosa sia un colpo di scena). O ancora Audrey Hepburn, ragazza impertinente “della porta accanto” che fa capitolare i “duri” Humphrey Bogart in Sabrina e Gary Cooper in Arianna. Shirley MacLaine, perfettamente alla pari con i tempi comici di Jack Lemmon, autentica icona wilderiana ne L’appartamento e Irma la dolce. Kim Novak, in quel monumento alla commedia degli equivoci che è Baciami, stupido.

E, naturalmente, Marilyn Monroe. Wilder la ricorda capace di presentarsi sul set con otto ore di ritardo, scusandosi perché non riusciva a trovare la strada. Svampita, distratta, poco capace di concentrarsi. In apparenza. Ma è lei a far brillare di luce propria A qualcuno piace caldo, titolo e film passati alla storia, con Jack Lemmon e Tony Curtis in abiti femminili per sfuggire ai gangster che li braccano. E ancora Marilyn come improvvisa materializzazione delle fantasie di un marito scapolo per l’estate in Quando la moglie è in vacanza, con la scena della gonna sollevata dagli sbuffi della metropolitana entrata di diritto nell’immaginario del secolo scorso.

Dalla Mitteleuropa ad Hollywood: Billie diventa Billy

La poetica di Wilder risente fortemente dell’influenza culturale tedesca del primo dopoguerra, espressionista, pessimista e angosciata da ombre nere sul proprio futuro. Samuel Wilder, detto Billie, nasce il 22 giugno 1906 a Sucha, oggi Polonia, all’epoca Impero Austroungarico, in una famiglia ebraica benestante. È il secondogenito di Max ed Eugenia Dittler. Suo fratello maggiore Wilhelm diventerà anche lui regista. Max Wilder passa da un’attività commerciale all’altra e la famiglia si trasferisce a Vienna quando Billie è piccolissimo. Studia nel peggiore liceo della città, come racconta lui stesso negli anni ‘90 nel suo libro-intervista con Cameron Crowe, e per un anno studia giurisprudenza. Nel 1926 diventa giornalista, prima a Vienna, poi a Berlino, dove inizia ad interessarsi di cinema, scrivendo sceneggiature. Con l’avvento del nazismo si trasferisce a Parigi, dove esordisce alla regia con Amore che redime (1934), poi negli USA. Il padre è morto nel 1928; la madre, il patrigno e la nonna sono destinati alla tragica fine in un lager, probabilmente Auschwitz. Imparare a sdrammatizzare sempre e comunque diventa forse la sua forma di autodifesa.

L’esordio a Hollywood

A Hollywood diventa collaboratore di Ernst Lubitsch, il re della commedia. Scrivono insieme L’ottava moglie di Barbablù e, soprattutto, il leggendario Ninotchka per Greta Garbo. La sua vocazione è scrivere copioni. Dichiara di essere diventato regista “per necessità”, perché stufo di vedersi “massacrare le sceneggiature”. La sua prima regia oltreoceano è Frutto proibito. L’inganno, dicevamo, in ogni sua declinazione. Ginger Rogers è una 25enne che si finge 12enne per viaggiare in treno a prezzo ridotto e finisce sotto la paterna protezione dell’ingenuo ufficiale dell’esercito Ray Milland, del quale si innamorerà. La trattazione è leggerissima, ma nel 1942 il film è comunque dalle parti dello scabroso. Seguono il film di guerra, con I cinque segreti del deserto(un soldato inglese in Egitto si finge spia tedesca) e la consacrazione con il celebre La fiamma del peccato, torrido noir con Fred McMurray, Barbara Stanwyck ed Edward G. Robinson.

I primi due Oscar per regia e sceneggiatura arrivano nel 1946 con Giorni perduti, che sarà premiato anche come miglior film e per l’interpretazione di Ray Milland, nel ruolo di uno scrittore alcolizzato. E ancoraScandalo internazionale, Stalag 17 ed una manciata di altri capolavori.

Gli anni ’60 e ’70: il sodalizio con Jack Lemmon e Walter Matthau

Uno dei film-manifesto del regista, L’appartamento (1960), storia dell’impiegato Lemmon che presta casa propria per gli incontri extra-coniugali dei propri superiori, conquista altri due Oscar. Gli anni ’60 proseguono con lo sfortunatissimo Uno, due, tre! (1961), “film giusto al momento sbagliato”, con un grandissimo James Cagney nel ruolo del direttore della Coca Cola di Berlino ovest che deve tenere segreto il matrimonio (e la dolce attesa) della figlia del suo principale con un attivista comunista di Berlino est. Nel bel mezzo delle riprese, le due Germanie vengono separate dal Muro. Il film è l’ennesimo capolavoro di ritmo e azione ma, alla sua uscita, nessuno ha più nessuna voglia di ridere sull’argomento.

Nel 1966 Wilder tiene a battesimo la coppia Jack Lemmon-Walter Matthau con Non per soldi… ma per denaro. Superati i 60 anni, il regista sembra disorientato. Vita privata di Sherlock Holmes (1970) e Che cosa è successo tra mio padre e tua madre? (1972) sono pregevoli ma con meno mordente del solito.

Il trio Wilder-Lemmon-Matthau torna in grande stile nel 1974 con Prima pagina. Terza delle quattro versioni cinematografiche dell’omonimo testo teatrale di Ben Hecht e Charles MacArthur del 1928, conserva l’ambientazione d’epoca per rimanere ancorata ad un periodo in cui il potere della carta stampata è totale e indiscusso. Il cronista Jack Lemmon intende licenziarsi per sposare l’amata Susan Sarandon ma viene trattenuto in tutti i modi dal cinico direttore Matthau, mentre c’è da fare luce sul caso di un condannato a morte per motivi politici. Un nuovo feroce, frenetico, esilarante, scintillante apologo sullo strapotere perverso dei media.

L’epilogo: “Nessuno è perfetto”

Dopo il crepuscolare Fedora con William Holden, quasi un reboot di Viale del tramonto, Lemmon e Matthau tornano nel 1981 per l’ultima regia di Wilder, Buddy Buddy, commedia venata di giallo, remake del francese Il rompiballe di Edouard Molinaro del 1973. Matthau è un killer che ha un “contratto” in un albergo, Lemmon è un aspirante suicida per amore che gli rompe involontariamente le uova nel paniere.

Dopo due decenni di pensionamento più o meno forzato, Billy Wilder si spegne nella sua casa di Beverly Hills il 27 marzo 2002. Se ne va, tre mesi prima di compiere 96 anni, un genio che è sempre stato ipercritico con il proprio lavoro. A Cameron Crowe spiegherà, rimarcando le differenze con il teatro, dove un lavoro brutto può essere insabbiato dall’autore: “Un film, che tu lo voglia o no, continua a essere visto per sempre. La vergogna dura in eterno!”. Una severità verso se stesso e la propria opera che viene esorcizzata dalla celebre, fulminante, icastica battuta conclusiva di A qualcuno piace caldo: “Nessuno è perfetto”.

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