La disgregazione dell’io e la lotta collettiva al silenzio

disgregazione dell'io

Essendo la scissione il tema del mese, la rubrica di Terzo Settore di Openmag decide di dare spazio ad un particolare tipo di disgregazione: quella mentale-psicologica che affligge una parte invisibile della società, condannandola ad una lunga alienazione.

Nell’uso quotidiano, la parola scissione/disgregazione (in particolare allo stato attuale) è accettata, utilizzata e abusata (?) in maniera ricorrente. D’altra parte il percorso dell’umanità verso la civiltà è lastricato da aspri conflitti e lotte interne, risolti il più delle volte con un conveniente “ognuno per sé”, per cui non c’è di che stupirsi se la separazione viene spesso vista come unica soluzione possibile di contro al dialogo.

Dato per certo che il termine scissione abbia in sé (metaforicamente parlando) un’accezione negativa che ricorda la sottrazione di/da qualcosa o qualcuno, quindi cosa accade quando la disgregazione riguarda il proprio io? E soprattutto, quale sarebbe il percorso esatto da seguire per reintegrarsi nella collettività? Openmag si pone queste domande provando non solo a rispondere, ma evidenziando alcune contraddizioni che riguardano una società sempre più protesa verso ideali di superficialità e sprezzante verso i problemi che portano le divisioni psicologico-mentali.

I disturbi psichici e la disgregazione personale.

Mentre in ambito letterario risulta spontaneo identificarsi nell’amata figura del visconte dimezzato, per il ramo psicologico la questione si fa decisamente più delicata. Nel principio delle teorie psicodinamiche la scissione è vista semplicemente come un meccanismo di difesa primario, in poche parole uno strumento di tutti. Come sempre, però, bisogna guardare alla degenerazione del fenomeno, in cui l’abuso della scissione porta non solo a psicosi, ma ad un evidente distacco della mente dalla realtà ambientale: l’io, frammentato e reso instabile dai troppi pensieri contraddittori, crolla psicologicamente, sprofondando in un baratro buio in cui l’unica via d’uscita per la guarigione sembra essere il  percorso riabilitativo.

Scissione vuol dire distacco, un processo che i malati affetti da schizofrenia conoscono bene (non a caso il medico Bleuler coniò il termine del disturbo dall’unione di due parole greche che rimandano alla scissione dei pensieri): schizofrenia/scissione vuol dire dissociazione dalla realtà nel momento in cui il tempo e lo spazio diventano coordinate puramente relative; il mondo interiore è l’unico parametro di riferimento della persona e la separazione tra mondo interno ed esterno si fa evidente.

Se le recenti analisi sullo stato psicologico della società contemporanea mostrano la nascita/crescita di nuovi disturbi come la fobia sociale o il disturbo d’ansia generalizzato, per non citare poi i disturbi della personalità che sono il fulcro della questione sulla scissione dell’io, fra tutte, però, è la depressione a farla da padrona (colpevole la società protesa verso ideali canoni di soddisfazione personale?): con circa 4.500.000 casi in costante aumento in Italia e una proporzione tra donne e uomini di 2 a 1, la depressione non solo sembra essere la malattia che spaventa di più dopo la diagnosi di un tumore, ma stante i rapporti dell’OMS, entro il 2030 sarà il disturbo cronico più diffuso.

solitudine

Il cuore del problema.

Le associazioni e le cooperative che a vario titolo si riconoscono nei principi fondanti del Terzo Settore non intendono certo stare immobili a guardare: esistono realtà in tutta Italia (una tra tante la Fondazione Progetto Itaca Onlus) che avvertono l’esigenza di intervenire drasticamente, progettando soluzioni creative e utili a sostenere persone affette da disturbi psicologici. Gli interventi vanno dal semplice (ma mai scontato) affiancamento dei medici, a programmi specifici di aiuto per il corretto reinserimento nel mondo del lavoro e della famiglia, come il Progetto Ulisse che crea percorsi di autonomia abitativa per persone con una storia di disagio psichico.

La dura realtà dei fatti.

Con fatica si arriva quindi a smascherare la dura realtà e il nocciolo della questione: per una società come quella italiana, che si dichiara apertamente aderente ai principi di welfare state, è sufficiente dedicare un costo sociale per paziente che varia tra € 1.451 e € 11.482 all’anno senza adottare modelli di presa in carico globale del malato e percorsi ad hoc?

Probabilmente no, così come risulta superficiale l’immagine che si ha dei disturbi psichici, scarsamente trattati anche a livello mediatico, ancora poco riconosciuti e ampiamente sottovalutati. Il danno a volte irreparabile riguarda la persona afflitta, che non solo nella fatica dell’accettazione della diagnosi viene risucchiata dal vortice della malattia, ma soprattutto viene radiata da una collettività che rifiuta l’idea del “danno” e si nasconde dietro lo stereotipo della pazzia.

Un iniziale abbozzo di soluzione potrebbe essere l’istituzione di centri pubblici preposti all’ascolto e all’aiuto, congiuntamente ad uno stanziamento di fondi maggiore rispetto a quello attuale e alla realizzazione di approfondimenti da parte dei media (in particolare del servizio pubblico), dando così alla malattia la giusta rilevanza che merita. Tutte ipotesi irrealizzabili senza la giusta apertura mentale di cui si necessita, perché il problema principale è fondamentalmente uno : la sottovalutazione dei disturbi psichici.

La società odierna (e a quanto pare anche le maggiori istituzioni che la rappresentano), almeno per il momento, decide di affidarsi ad un silenzio omertoso, facendo dell’isolamento un principio cardine a cui ispirarsi, complice l’ignoranza dilagante che ad oggi ancora affligge il vasto mondo del disagio psichico. Ad oggi in Italia la soluzione alla disgregazione (dell’io come della popolazione) sembra essere un miraggio lontano.

 

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