Volontariato, danno o risorsa? l’altra faccia del sostegno

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Aiutare gli altri può essere un’esperienza molto appagante, ma cosa succede quando ci si dedica al volontariato per il motivo sbagliato? Apologia di opinioni controverse sul mondo del sostegno.

The other side of the support; il riadattamento di un celebre album dei Pink Floyd ben si presta a riflettere sul complesso e sfaccettato mondo della solidarietà: essere partecipi di un contesto appartenente al volontariato infatti, si sa, diventa un’esperienza straordinaria a livello umano (e a volte irrinunciabile) non solo per chi “si offre”, ma anche per chi ne beneficia, dando vita ad una infinita catena umana di sostegno e solidarietà. Che ci si creda o no, esiste però inverosimilmente una sorta di “lato oscuro”, o meglio di altra faccia della medaglia: cosa succede quando ci si avvicina al volontariato per i motivi sbagliati? Potrebbero arrecarsi più danni che benefici?

Non molto tempo fa Matador Network, un importante sito a livello internazionale creato nel 2006, ha provocatoriamente stilato in un articolo, le domande (4 per la precisione) fondamentali da farsi per capire se si vuole (e se si può) fare volontariato nel modo giusto. Le riflessioni dell’articolo riguardano in particolare le attività di solidarietà svolte in Africa, ma possono essere facilmente applicate come regola generale a tutti i paesi del mondo.

Vademecum sul vasto e complesso mondo del volontariato.

Alla domanda “Perché vorresti fare/fai il volontario?” le risposte più comuni vanno generalmente dal sentirsi meglio con se stessi rendendosi utili alla collettività, al realizzare e capire chi è più fortunato di altri. Si dice che aiutare il prossimo sia il più grande antidepressivo mai esistito. Nella società dell’apparenza però, dove ogni attività viene scrupolosamente documentata dai social network e passata sotto la lente di giudizio di una superficiale quanto stereotipata giuria, anche i gesti di solidarietà corrono grossi rischi (uno tra tanti quello di avere secondi fini più importanti dell’originario scopo altruistico). Questo atteggiamento superficiale per altro rischia di penalizzare la credibilità delle associazioni che ci mettono la faccia e la perdita di fiducia da parte degli assistiti che si confrontano/scontrano con un mondo cinico e sprezzante delle difficoltà altrui.

Il lato oscuro del volontariato.

Del resto, per svolgere una qualsiasi attività che riguardi la sfera solidale, è necessario (o forse doveroso più verso gli altri che verso se stessi) avere la giusta motivazione e prontezza d’animo: sono tanti, purtroppo, gli esempi negativi di volontariato “finito male”, il più delle volte a causa di una sorta di “immaturità” di fondo di chi presta la sua opera volontaria. Ci si approccia infatti all’aiuto e al sostegno verso l’altro a volte in maniera superficiale, senza rendersi conto dei sacrifici, della costanza, delle competenze necessarie e dell’impegno a livello psicologico, data la posta in gioco veramente alta.

Tra gli esempi di questa superficialità sono i volontari in Africa che scelgono di assistere bambini orfani: creano infatti un legame temporaneo che si spezza al momento del ritorno a casa generando più insicurezze che supporto alla fragile esistenza dei piccoli. Tanti i casi di giovani volontari che, nonostante la selezione e i corsi organizzati dalla Caritas per una corretta preparazione, crollano per il forte carico emotivo, abbandonando storie e le Persone protagoniste delle mense o dei centri per sieropositività.

Volontari e selfie.

Senza dimenticare il classico e mai scontato ritorno d’immagine a cui aspirano i più dopo aver compiuto una qualsiasi attività solidale. Infatti tropo spesso c’è un altro motivo, crudele e quanto mai spietato, che spinge qualcuno a “dedicarsi” agli ultimi: è il ritorno personale, in termini monetari o comunque materiali. Una storia che si ripete spesso e che viene messa in atto dai singoli, i quali approfittano di una situazione di disagio per beneficiarne in qualsiasi modo. Un esempio recente è stato raccontato da un servizio de “Le Iene” andato in onda il 19 Marzo 2017, in cui è possibile osservare come due persone abbiano approfittato di una tragedia come quella del terremoto di Amatrice per ottenere qualcosa in cambio. La facciata solidale quindi c’è, ma è in questo caso strumentalizzata per egoismi personali.

Le giuste domande da farsi…

Il volontariato è tuttavia non solo necessario, ma un motore che genera una crescita e uno scambio di valore per tutte le parti: sia chi riceve il tempo e per chi lo dedica. Cruciale allora diventa l’analisi motivazione e la preparazione del volontario. “Faresti volontariato all’estero senza avere una fotocamera con te?” Questa la prima e necessaria domanda che l’aspirante volontario dovrebbe porsi, compiendo dentro di sé un percorso introspettivo che porta a riflettere sui reali motivi per cui si sceglie di assistere il prossimo.

Se l’interesse è semplicemente portare aiuto in modo incondizionato o se al contrario, attraverso l’uso di fotografie e video, l’unico obiettivo è quello di restituire una ben precisa immagine di se stessi alla comunità social, la cosiddetta “parte migliore”, per averne poi un ritorno in termini di popolarità e non solo forse è il caso di rivedere le proprie intenzioni di aderire a un programma di volontariato.

Il secondo passo è quello di accertarsi che tra il volontario e l’ong/associazione di riferimento ci siano gli stessi valori etici di fondo e stessi obiettivi a lungo termine. Basilare a questo proposito per istituire un rapporto di fiducia è informarsi scrupolosamente sulle attività già svolte dall’organizzazione e assicurarsi di compiere un preciso distinguo tra chi aiuta in modo genuino e chi è invece inserito nella grande macchina del business del volontariato.

E le risposte da darsi.

Le ultime due domande, forse le più importanti per capire realmente quanti danni e quanti benefici posizionare sui piatti della bilancia, rimandano alle reali possibilità/capacità del volontario non solo in termini di tempo: è necessario infatti stabilire i propri limiti, sia qualitativamente che quantitativamente parlando, per non rischiare di fare danni. Siete sicuri che siete in grado di offrire un aiuto qualitativamente significativo a chi prestate la vostra opera volontaria? In altre parole, nel vostro paese vi verrebbe in mente di proporvi per supportare psicologicamente i superstiti di una calamità? Vi proporreste per andare a costruire delle case nei quartieri popolari? Il danno arrecato è esattamente nell’infrazione dei confini di ciò che realmente si può offrire, il quale non solo cancella tutti gli sforzi fatti in precedenza, ma oltretutto altera la sicurezza e a volte il benessere di chi dovrebbe beneficiare della cura offerta.

La vera faccia dell’altruismo.

Fortunatamente i casi di “volontariato sbagliato” non sono la maggioranza, l’Italia infatti per ciò che riguarda  l’altruismo non si risparmia. Il tasso di volontariato si aggira intorno al 12,6% della popolazione (con picchi non indifferenti in Trentino); ciò vuol dire che un italiano su otto crede che la solidarietà possa fare la differenza. Ma non finisce qui, se i più cinici e critici si appellano ad un volontariato fatto da persone benestanti e in età da pensione, le statistiche dimostrano tutt’altro: non solo un significativo 9,7%, infatti, nonostante si trovi in difficoltà economiche trova appagante ricordarsi degli ultimi, ma addirittura il 10% dei ragazzi compresi in una fascia che va dai 14 ai 24 anni considerano il volontariato una delle prime e più importanti esperienze formative di vita.

Pochi dati e statistiche alla fine dei conti ci dimostrano che il capitale sociale c’è e anche le giuste motivazioni: è necessario però lavorare attentamente su se stessi e sulle proprie ragioni non solo per distinguere cosa è giusto da cosa è sbagliato, ma soprattutto verificare quali effetti corrispondono alle proprie azioni nel bene e nel male e scegliere di conseguenza.

 

 

 

 

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