#WithRefugees: l’arte di essere migrante.

#withrefugees

Una Mostra a Milano dal titolo #WithRefugees, 45 scatti fotografici e 5 importanti fotografi sono l’occasione per affrontare il discorso sull’immigrazione da una diversa prospettiva: l’arte è in grado di far comprendere fenomeni socio-culturali complessi?

Realizzare un’opera d’arte non è semplicemente un modo per esprimere se stessi,  diventa anzi un importante strumento attraverso cui manifestare il proprio consenso o dissenso rispetto alle vicende che coinvolgono la società contemporanea. In un mondo completamente digitalizzato in cui sono i logaritmi delle immagini visualizzate a ricomporre il puzzle delle informazioni da seguire, se è vero il detto “non c’è peggiore sordo di chi non vuol sentire”, le icone gridano più forte diventando il nuovo modo di fare notizia (a volte surclassando il giornalismo), e la mostra fotografica #WithRefugees ne è la dimostrazione esemplare.

#WhithRefugees e l’oggettività scomoda.

Si è tenuta il 31 Marzo e il 1 Aprile scorsi presso lo spazio Big Santa Marta di Milano la mostra #WithRefugees- Fotografi per i rifugiati, organizzata dalla UNHCR in collaborazione con il MIA Photo Fair. La kermesse ha avuto il merito di unire attraverso quarantacinque scatti e il macrotema della migrazione, cinque grandi fotografi a livello internazionale, da Franco Pagetti, noto per i suoi reportage di guerra, a Massimo Sestini, vincitore del World Press Photo del 2015 con il suo celebre “Mare Nostrum”. Il progetto  però ha avuto anche una importante finalità: infatti attraverso gli incassi provenienti dalla vendita delle fotografie, sarà poi possibile sostenere nuovi programmi di aiuto per le emergenze della UNHCR.

La mostra fotografica è il giusto punto di partenza per riflettere sulla ormai stretta interconnessione tra arte e società: le immagini (in questo caso fotografie, ma lo stesso vale per quadri e sculture) offrono allo spettatore un punto di vista privilegiato (come quello del migrante), che l’informazione giornalistica nuda e cruda non può dare. Attraverso un’immagine è possibile percepire una sensazione o un sentimento, come la sofferenza e il dolore del viaggio o del lutto, la speranza e la paura; si gioca tutto in pochi istanti e nelle emozioni di chi osserva.

Immagine: forma e sostanza a confronto.

L’icona artistica o l’opera d’arte in sé per sé quindi (scevra dall’istantanea  finalità estetica), attraverso l’uso di un linguaggio universale offre una panoramica sui mille volti diversi della notizia, aprendo di fatto alla possibilità di un dialogo tra società e culture opposte tra loro e alla creazione di nuovi modelli inclusivi per una giusta integrazione. Ne è una prova lampante la celebre “Porta di Lampedusa-Porta d’Europa”, il monumento di Mimmo Paladino dedicato a tutti i migranti deceduti in mare che attraverso la memoria di stragi disumane, vuole in realtà testimoniare il legame indissolubile tra gli isolani e i rifugiati ed essere l’unica dimostrazione possibile di accoglienza da parte della civiltà europea.

L’immigrazione del resto è un tema ampiamente trattato e sempre ai primi posti per quanto riguarda l’agenda politica di partiti e istituzioni (anche per la semplicità di strumentalizzazione): eppure chi ne discute sembra proporre soluzioni a senso unico, mentre al contrario l’arte prova ad imporre un modello di dialogo diverso, che attraverso un forte impatto visivo e lo choc generino prospettive di risoluzioni.

Riflessioni artistiche e non.

#WithRefugees è solo uno dei tanti casi di “arte impegnata“. La lista di artisti che, con intenti polemici e non, decidono deliberatamente di far riflettere sui nuovi problemi socio-culturali è veramente lunga e “affollata” da variabili interessanti. Un chiaro campanello d’allarme ha voluto lanciarlo Corrado Levi nel 2015 che, raccogliendo vestiti abbandonati dai migranti sulle spiagge di Otranto, ha deciso poi di indossarli tutti insieme facendosi fotografare. La foto, “Vestiti di arrivati”, non solo è diventata un manifesto stradale di Bologna, ma è voluta essere una cinica e quanto mai veritiera richiesta di aiuto, grazie ad un realistico uso del detto ” mettiti nei miei panni”.

Nel complicato rapporto tra arte e migrazione, anche l’artista dissidente cinese Ai Weiwei ha voluto dire la sua: dopo aver aperto uno studio a Lesbo, l’isola greca diventata ormai famosa per il numero impressionante di sbarchi recenti, ha documentato il dramma dei migranti su Instagram con centinaia di scatti. Un esempio di arte per la serie “se la montagna non viene a Maometto”, che utilizzando lo strumento social per eccellenza per quanto riguarda le immagini ,vuole imporre su scala mondiale  una riflessione sulle responsabilità collettive e sulle implicazioni umanitarie per il giro di vite che coinvolge il fenomeno dell’immigrazione.

La responsabilità di un’opera d’arte.

Alla domanda: “l’opera d’arte può restituire qualcosa a chi ne beneficia in termini di valori etici e sociali?” la risposta non può che essere affermativa. L’immagine ha un valore aggiunto che non può possedere la scrittura (anche in termini di pubblico): quello di parlare direttamente al cuore e alla mente di chi osserva. Un’ immagine, oltre a dover sostenere la responsabilità di ciò che decide di comunicare, ha il potere di scandalizzare, divertire, commuovere: sono tutte reazioni che generando dialogo e discussioni, fanno leva sulla voglia di costruire nuovi modelli di integrazione per la società del futuro.

 

 

 

 

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