Libertà e contraddizioni: c’era una volta il Western americano

libertà e contraddizioni: C’era una volta il Western americano

Genere cinematografico per eccellenza, il western made in USA ha partorito capolavori e mostri sacri ed è stato emblema del mito di libertà, in gran parte artificiale, rappresentato dalla Grande frontiera. E delle clamorose contraddizioni del Sogno americano

 “Tu hai mai visto un campo indiano dopo il passaggio di voi soldati? Hai mai visto le donne e quello che gli era stato fatto prima di ammazzarle? Hai mai visto due o tre bambini o bambine infilzati insieme con la sciabola e non ancora morti? Io li ho visti”. Così la donna bianca cresciuta tra i Cheyenne Candice Bergen apre gli occhi all’ingenua recluta Peter Strauss che piange i suoi commilitoni uccisi. E con i suoi, Soldato blu di Ralph Nelson apre gli occhi del pubblico sulla vera storia dello sterminio dei pellerossa.

Il western “contestatore”

È il primo film a dire brutalmente la verità sulle atrocità subite dagli indiani, insieme a Piccolo grande uomo di Arthur Penn, uscito lo stesso anno. Ci sono alcuni precedenti meno malevoli, come nel 1957 La tortura della freccia di Sam Fuller. Ma in generale, fino ad allora gli indiani sullo schermo sono sempre stati solo barbari, crudeli, spietati. Necessario contraltare per la figura eroica ed idealizzata del pioniere, del cow-boy(naturalmente bianco) che si addentrava nel Grande Paese in cerca di libertà, portando civiltà, trovando (come da Costituzione) la felicità. È il 1970, l’America ha scoperto di non essere il Paese dei balocchi. I suoi ragazzi cresciuti a drive-in e juke-box sono in Vietnam ad ammazzare e farsi ammazzare.

Non c’è più motivo di volersi illudere che prima fosse diverso. Si conclude un processo “revisionista”, intrapreso negli anni ’60, anche sotto l’incalzare della forza dissacratrice del Western italiano, da autori come Sam Peckinpah, Arthur Penn, Sidney Pollack che hanno smontato l’idea di una Grande frontiera fatta solo di buonissimi destinati a trionfare e cattivissimi destinati alla sconfitta.

Il Mito del Ovest: nascita (romanzata) di una Nazione

Lo scontro dell’O.K. Corral (in realtà di natura politica: Wyatt Earp e i suoi erano repubblicani, i CowBoyserano democratici); La Battaglia di Alamo, esordio registico di John Wayne; Il massacro di Fort Apache di John Ford; La storia del generale Custer di Raoul Walsh, in cui il protagonista interpretato da Errol Flynn diventa una specie di eroe senza macchia. Il western americano nasce come genere “mitopoietico”, destinato a sostituire, con la grandiosità del Mito dell’ovest sconfinato e ricco di opportunità, la realtà di coloni che viaggiavano per migliaia di miglia per diventare affittuari di terreni già ottenuti in concessione da grandi società dell’est, con le quali spesso si indebitavano a vita.

Trasformando spesso episodi poco edificanti, o addirittura biechi, in epopea epica e nobile, come già accadeva nell’Ottocento nelle pagine di William Codyalias Buffalo Bill e dell’italo-texano Charles Angelo Siringo, nasce il genere cinematografico per eccellenza, fucina di capolavori, ma allo stesso tempo dotato di regole e di una grammatica ferree, non soltanto per la necessaria uniformità di ambientazione temporale e geografica. Un giallo o un horror comico è un film comico; un western comico è un film western.

Assalto al treno: la rapina come violazione dell’ordine sociale

Anche se ancora lontano dall’avviare un genere codificato, generalmente il primo western della storia del cinema è considerato Assalto al treno di Edwin S. Porter, del 1903. Un titolo che dice già tutto. In meno di 11 minuti si gettano le basi di un secolo di cinema a venire. La banda di fuorilegge: elementi perturbatori dell’ordine sociale, rotelle impazzite, incredibilmente incapaci di apprezzare i vantaggi di un’esistenza nel rispetto delle leggi della “Nazione benedetta da Dio”, inevitabilmente destinati alla punizione suprema. La rapina: i cattivi assaltano e uccidono per compiere un reato contro il patrimonio, quasi un sacrilegio.

Il treno e il telegrafo: il luogo dell’azione e lo strumento che permette la vittoria dei buoni; i segni del progresso sono anche i segni del Bene. Manca ancora la figura centrale, l’eroe. I banditi vengono uccisi dai rangers, come a dire che non occorrono eroismi individuali quando è il sistema ad essere già eroico ed efficiente. Reduce non valorosissimo della Guerra ispano-americana, sarà Tom Mix il primo cow-boy solitario e tutto d’un pezzo che, tra il 1909 e il 1935, sarà interprete, regista, sceneggiatore, produttore di centinaia di western.

Il western del New Deal: Ombre Rosse

Sono direttamente legati al tema della “civilizzazione” dell’Ovest il primo ruolo importante di Marion Mitchell Morrison alias John Wayne, Il grande sentiero (1930) di Raoul Walsh, storia di una carovana di pionieri diretta verso l’Oregon, e il primo grande successo diretto da John Martin Feeney alias John Ford, Il cavallo d’acciaio(1924), epopea della costruzione della ferrovia transcontinentale tra l’Atlantico e il Pacifico.

Proprio quando il genere sembra in declino, nel 1939 la coppia realizza Ombre rosse, nove personaggi archetipici (lo sceriffo, il desperado, la prostituta, il baro, il medico ubriacone, la moglie di un ufficiale ecc.) chiusi in una diligenza braccata dagli Apache, naturalmente ferocissimi. È l’America della Grande Depressione a viaggiare su quella diligenza. Alla fine del viaggio, c’è chi scoprirà in sé insospettate virtù e nuovi valori. John Ford si accredita tra gli autori di riferimento del nuovo corso degli USA di Franklin Delano Roosevelt, paradossalmente con l’aiuto di quello che diventerà uno dei volti cinematografici simbolo del conservatorismo: John Wayne.

Gli anni’50, il maccartismo nelle praterie

All’inizio degli anni ’50 Hollywood risente del clima di diffidenza e timore generato dal maccartismo. La paura di uno scontro nucleare con i sovietici è alle stelle e, tra le migliaia di cittadini chiamati davanti alla Commissione per le attività antiamericane guidata dal senatore Joseph McCarthy a discolparsi dall’accusa, vera o falsa, di essere attivisti comunisti, ci sono molti personaggi del cinema. Alcuni finiscono per denunciare i propri colleghi.

Un’atmosfera diffusa di angoscia, sfiducia nelle istituzioni, reciproca ostilità permea film come Mezzogiorno di fuoco di Fred Zinneman, con lo sceriffo Gary Cooper lasciato solo dai suoi concittadini mentre si avvicina sempre di più l’ora dell’arrivo di un vecchio nemico in cerca di vendetta. O come Ultima notte a Warlock di Edward Dmytryk (che ha testimoniato davanti a McCarthy), con lo sceriffo “abusivo” Henry Fonda che ripulisce la città e per questo finisce per indispettire, con il suo prestigio, gli stessi notabili che lo hanno assunto.

Qualcosa è cambiato (?)

Disertori, peones, straccioni, desperados, soldati o sceriffi incapaci di prendere ordini. Quando con gli anni ‘60 la contestazione fa ingresso anche nel western, il tema dominante non è più la lotta per portare ordine in un mondo selvaggio ma la lotta dell’individuo per restare libero dall’oppressione dei nuovi potenti. Un registro che domina l’intera opera di Sam Peckinpah, con personaggi stufi, guerrieri al tramonto che preferiscono andarsene alla grande che marcire in catene. Sierra Charriba, Il mucchio selvaggio, Pat Garrett e Billy Kid.

Una filmografia dominata dal tema dello scontro tra ribelli ed ex-ribelli. Quando la spinta degli anni ’60-’70 si affievolisce, il genere si ricompone su basi neo-classiche, con titoli come Silverado di Lawrence Kasdan,Geronimo di Walter Hill o il clamoroso successo di Balla coi lupi di Kevin Costner. Un “neo-classicismo” che, con poche eccezioni, sembra durare ancora oggi, tra remake (I magnifici sette il più recente), citazioni e omaggi di varia natura. Nel finale di Quei bravi ragazzi, Scorsese fa riapparire, quasi come un fantasma, Joe Pesci che spara ripetutamente verso lo schermo. Come nove decenni prima, il defunto capo dei rapinatori diAssalto al treno.

La via “eastwoodiana” al western

Nella destrutturazione e rielaborazione del Mito ha un ruolo cruciale il Clint Eastwood regista. Laddove i recenti western di Quentin Tarantino accelerano nella scia del grottesco e dell’estremo tipici del western italiano ante e post Sergio Leone, fin dalle sue prime regie Eastwood cala la lezione del maestro romano in un contesto ideale squisitamente americano. Da Lo straniero senza nome a Il texano dagli occhi di ghiaccio a Il cavaliere pallido, i pistoleri di Eastwood non sono nati senza ideali e senza speranze. Hanno creduto nel sogno della Grande frontiera e l’hanno visto andare in frantumi. Quando nel 1993 Gli spietati alza al cielo quattro Oscar, è (ri)nato un grande autore. Ma è anche rinato il grande western hollywoodiano.

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