I cittadini italiani sembrano prossimi alle elezioni e distanti dalle urne. Alcuni spunti per riflettere sul tema e ragionare sulle soluzioni.
Cittadini ed astensionismo, due temi che non mancano di essere discussi e trattati. Ritornano di stretta attualità dopo la vicenda riguardante le dimissioni di Mario Draghi e il ritorno degli italiani al voto in caso di un eventuale scioglimento delle Camere.
Mentre è alta la tensione politica, con una crisi di governo che alcuni giornali esteri definiscono “una tempesta perfetta”, facciamo un passo indietro. Proviamo a fare un punto sul tema della partecipazione al voto nelle ultime tornate elettorali. In particolare i 5 referendum in tema di giustizia e le elezioni amministrative del 12 giugno.
L’affluenza elettorale o disaffezione dei cittadini (la cruda realtà dei dati)
I cittadini che partecipano attivamente alle varie consultazioni elettorali avranno osservato con attenzione un problema in crescendo negli ultimi anni: l’astensionismo. Fenomeno che consiste nel rifiutarsi di partecipare alla vita politica e/o alle votazioni (definizione Treccani).
Negli anni infatti il numero di persone che si reca a voto è diminuito parecchio. Stando alle statistiche, dal 1993 al 2021, all’elezione diretta dei sindaci delle 4 maggiori città italiane (Roma, Milano, Napoli e Torino) si è registrato un calo di 1,65 milioni di votanti, con un’affluenza che passa dal 70% al di sotto del 50%. Dati non diversi sono quelli delle elezioni europee, con un calo di partecipazione elettorale del 20% nel periodo dal 1979 al 2014.
Si tratta di numeri che ciascuno può constatare nelle proprie realtà locali. Alle consultazioni amministrative del 12 giugno, secondo i dati diffusi dal Ministero dell’Interno, al primo turno la media nazionale dei votanti si è attestata al 60% e ai ballottaggi del 26 giugno è arrivata al 54%.
Il dato che rappresenta in modo plastico questa tendenza è quello dei referendum popolari del 12 giugno. Ai 5 quesiti referendari in materia di giustizia, la media nazionale è stata di circa il 21% di votanti, ben al di sotto del quorum richiesto per la validità del loro esito.
La perduta importanza dei referendum per i cittadini
Non solo è diminuito il numero di persone che va a votare. Quello che si percepisce è che si è anche indebolito il sentimento di coinvolgimento dell’elettorato. Sembra debilitata la stessa concreta possibilità del singolo cittadino di influenzare le dinamiche istituzionali.
Il referendum è l’emblema della democrazia diretta. Con questo l’elettorato incide direttamente sul funzionamento delle istituzioni di qualsiasi Stato liberaldemocratico. Ciò accade facendo cessare gli effetti di alcune disposizioni di legge (referendum abrogativi) oppure confermando o meno modifiche dell’ordinamento costituzionale (referendum costituzionali). E tutto ciò accade senza intermediazione dei parlamenti o di altri organi legislativi periferici.
Basti pensare alla portata che ha avuto il referendum del 2016 sulla “Brexit”, sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea. Al netto delle diverse opinioni che si hanno sugli effetti di questa scelta, al referendum c’è stata una larga partecipazione dell’elettorato. La media è stata del 72% di elettori al voto.
Nel nostro Paese, dopo il referendum monarchia-repubblica del 1946, sono passati diversi decenni prima di vederne celebrato un altro. Lo storico referendum sul divorzio si è avuto solo nel 1974 e si è trattato di una consultazione molto dibattuta e che ha segnato le opposte idee politiche che l’Italia di allora aveva in materia di diritti civili. Fino ad arrivare all’“ondata” di referendum del 1993 e del 1995, con 20 quesiti abrogativi promossi in gran parte dai Radicali e con un’affluenza sopra il 57% degli elettori al voto.
Le cause della lontananza dei cittadini
La domanda che sorge spontanea è allora per quale ragione possano essersi registrati dei dati di affluenza così bassi per questi referendum. Dati che, certamente, si inseriscono in una più generale crisi della partecipazione politica. Diversi esperti e testate giornalistiche hanno attribuito la causa della scarsa affluenza alla materia trattata nei quesiti, ritenuta troppo tecnica.
I testi delle schede di votazione hanno riguardato: l’incandidabilità dei politici dopo una condanna in primo grado; la limitazione delle misure cautelari; la separazione delle carriere dei magistrati; la valutazione dei magistrati da parte dei membri laici dei consigli giudiziari; le firme per le candidature al Consiglio Superiore della Magistratura. Argomenti che non sembrerebbero essere trattati ogni giorno nei bar, al mattino, mentre si beve un caffè.
Il fatto che potessero risultare dei temi per “addetti ai lavori” non sembra tuttavia spiegare a sufficienza i motivi della bassa affluenza. In fin dei conti, molti dei referendum proposti nei decenni scorsi erano altrettanto complessi, andando dalla materia elettorale fino alle leggi in materia di diritto sindacale.
Prendere in considerazione anche il fatto che i referendum siano stati approvati in seguito alla proposta di 5 consigli regionali, più che per le firme del corpo elettorale, non sembra neanche questa essere una ragione plausibile.
La fiducia dei cittadini che manca
Secondo un’analisi del politologo Roberto D’Alimonte, tre sarebbero le condizioni perché un referendum sia “di successo”: “la prima è che gli elettori capiscano per cosa sono chiamati a votare; la seconda è che la questione sia di rilevante interesse; la terza è che si fidino di chi li incoraggia a votare”.
La più interessante tra le tre condizioni è quella della fiducia, asse portante di ogni società e anche della partecipazione elettorale. Lo stesso Adriano Olivetti, nel libro “Democrazia senza partiti”, scriveva che come base del mandato politico vi era un atto di fiducia.
In effetti da tempo è entrata in gioco una dinamica che caratterizza i referendum: il fatto che questi siano talvolta avvertiti come mezzo di lotta politica tra forze parlamentari. Specie quando il dibattito in aula risulta non essere risolutivo e a vantaggio del singolo schieramento politico.
In questo modo il rischio è di chiedere agli elettori un atto che non risulta di genuina partecipazione. Ma, il più delle volte, il loro dire sì o no assume un significato di “appartenenza” ad uno schieramento e di semplice apprezzamento dei gruppi politici che lo promuovono. Anche questo tipo di manovre elettorali può determinare un progressivo e ulteriore allontanamento dalla vita politica attiva.
Come favorire la partecipazione dei cittadini?
Essendo quello dell’astensionismo un problema di lunga durata, il 14 di aprile è stato presentato il libro bianco “Per la partecipazione dei cittadini. Come ridurre l’astensionismo e agevolare il voto”.
Elaborato dalla Commissione di esperti istituita dal Ministro per i rapporti con il Parlamento Federico D’Incà, il libro contiene una serie di proposte per contenere il problema e incentivare il voto. Tramite un’analisi di buone pratiche di 19 democrazie occidentali, diverse sono le strategie proposte. Compaiono la digitalizzazione delle tessere elettorali e la concentrazione delle tornate elettorali in due sole giornate all’anno (le cosiddette “election day”).
Si propone anche il voto anticipato nel luogo di residenza o in altro luogo, quello per corrispondenza o ancora si chiede di sperimentare il voto elettronico. Misure che vengono avanzate in relazione alla difficoltà che spesso gli elettori riscontrano nel recarsi nei luoghi di residenza durante le elezioni.
Nel libro si tiene anche conto del peso che l’informazione e la comunicazione hanno nella partecipazione al voto, in particolare per le giovani generazioni. Perciò si rimarca l’importanza del coinvolgimento dei giovani negli organi nazionali di consultazione (in Italia è il Consiglio Nazionale dei Giovani).
Così come si sottolinea la necessità di tenere in debita considerazione il desiderio che i giovani elettori hanno di esprimere la propria voce, tramite campagne mirate, con l’obiettivo di fornire strumenti, informazioni e, soprattutto, di infondere fiducia.
Il buon esempio della Conferenza sul Futuro dell’Unione Europea
Come buona pratica che dimostra quanto la cittadinanza di tutta Europa sia interessata a dire la propria sulle sfide e le priorità che l’Unione Europea deve affrontare, va citata la Conferenza sul Futuro dell’Unione Europea (COFOE).
Promossa dal Parlamento europeo, dal Consiglio e dalla Commissione europea, l’iniziativa ha avuto inizio nella primavera del 2021 e si è conclusa a maggio di quest’anno, con la presentazione delle 49 raccomandazioni sottoposte all’attenzione delle istituzioni europee.
Si è svolta tra Strasburgo e Bruxelles, coinvolgendo 800 cittadine e cittadini scelti in modo casuale da tutti i 27 paesi membri. Questo gruppo di cittadini – la gran parte dei quali non aveva mai avuto esperienze di partecipazione politica – è stato diviso in 4 tavoli tematici, riguardanti le seguenti aree:
– cambiamento climatico, ambiente e salute;
– rafforzamento economico, giustizia sociale, lavoro ed educazione, sport e trasformazione digitale;
– democrazia e valori europei, diritti e Stato di diritto, sicurezza;
– UE nel mondo, migrazioni.
Ogni tavolo di discussione (chiamato panel), di 200 cittadini ciascuno, ha lavorato separatamente sul tema per il quale era stato assegnato, con discussioni e confronti svolti da remoto e in presenza. Il tutto è stato agevolato dalla presenza di facilitatori, di esperti in materia e di una piattaforma digitale multilingue. In questo modo sono state condivise riflessioni e proposte dai cittadini interessati.
Questo evento e i molti appuntamenti con cui si è svolta la conferenza hanno registrato un’elevata partecipazione dei cittadini in tutta Europa. In base ai contributi caricati sulla piattaforma digitale multilingue, l’Italia è stata particolarmente attiva, risultando tra i primi Stati membri per numero di proposte avanzate.
Le diverse forme di partecipazione
Dalla Conferenza sul Futuro dell’Europa, dal libro bianco sull’astensionismo e dalla discussione sui referendum, emergono degli spunti interessanti.
Intanto che sarebbe necessario superare l’idea che i dati sull’affluenza alle urne possano spiegare in modo completo un fenomeno complesso come è la partecipazione attiva dei cittadini ed allontanarsi dalle solite lamentele sulla politica italiana.
Come analizzato da vari studiosi di scienze sociali, la presenza dei cittadini alle elezioni è solo uno dei gradini della “scala di partecipazione della cittadinanza” (elaborata da Sherry Arnstein nel 1969) e si allontana da quelli più alti, relativi all’elaborazione di programmi di intervento pubblico o al supporto di progetti di autogestione di comunità locali.
Ognuno di noi può essere, a vario titolo, impegnato nel dare il proprio contributo alla comunità in cui è più attivo. Potrebbe esserlo come volontario di un’associazione, oppure in una raccolta fondi o ancora nel farsi portavoce di una proposta nata in rete a supporto di una specifica tematica. La partecipazione di ogni cittadino si esprime in vari modi, tutti importanti.
Questo non può in nessun modo significare che andare o meno a votare non abbia alcuna importanza. La Conferenza sul futuro dell’Europa ha dato prova che cittadine e cittadini hanno voglia di occuparsi di politica e vogliono contribuire a plasmare il futuro delle proprie realtà locali. E questo si discosta dalla generica rilevazione del distacco dei cittadini dalla politica.
La democrazia che cura se stessa
Ciò che è certo è che la soluzione non passa attraverso la semplice approvazione di singoli provvedimenti amministrativi in materia elettorale. Così come non basta un generale richiamo alla credibilità e alla capacità organizzativa delle forze politiche.
Diversamente da altre forme politiche, la democrazia ha il potere di curare se stessa, perché le soluzioni ai problemi si ritrovano al proprio interno. A favorire l’inclusione dei cittadini ai meccanismi delle istituzioni è una loro più ampia presenza, ancorata alla condizione che il lavoro di consultazione termini con l’effettiva messa in pratica delle proposte avanzate (com’è accaduto con l’iniziativa europea).
Il mantenimento di questa promessa, insieme ad un processo di semplificazione delle informazioni riguardanti le politiche pubbliche e con innesti di partecipazione dal basso, potranno costituire buone condizioni di partenza perché si ripristini quella fiducia che sembra perduta nelle istituzioni democratiche.
a cura di Samuele Canu