Caso Belen-Shein: se il pubblico si ribella alla fast fashion

Caso Belen-Shein: se il pubblico si ribella alla fast fashion

Cosa avviene se Belen, fra i volti più noti della tv italiana pubblicizza un brand di fast fashion? In che modo il pubblico ne rimane colpito?

Belen Rodriguez testimonial di Shein

Il 16 novembre Belen Rodriguez pubblica sul proprio profilo delle foto come testimonial del brand Shein.

La show girl argentina, che da sempre promuove un ideale di donna imprenditrice ed emancipata, secondo i suoi fan, avrebbe sbagliato a concedere la propria immagine al marchio cinese.

Per quale motivo? Ve lo spieghiamo subito!

L’e-commerce, fondato nel 2008, è stato nel 2021 la seconda app più scaricata in Italia (la prima è Vinted). In voga tra i giovani della generazione Z, risponde a più esigenze riscontrabili oggi nel settore della moda. Abiti colorati, attraenti, che cambiano ogni settimana e costano poco. Shein permette a chiunque si avvicini ai suoi prodotti di cambiare la propria immagine più volte, attraverso le sue 52 collezioni annuali.

Ma cosa significa rispondere a tutti questi criteri, facendo pagare ogni accessorio tra i 3 e 10€? Chi paga effettivamente il costo di questa moda veloce e attenta all’apparire e non alla salvaguardia dei diritti umani?

Nel documentario Untold di Iman Amrani, inchiesta svolta negli edifici di Shein con telecamere nascoste, vengono mostrate le condizioni lavorative di centinaia di lavoratori ma soprattutto lavoratrici. 17-18 ore al giorno, 0,04€ a capo per arrivare a guadagnare 540€ che non rispondono lontanamente a un salario minimo e dignitoso. Questa la situazione che la fast fashion di Shein ha generato e che purtroppo riguarda anche altri marchi.

L’altro lato della moda: lo sfruttamento delle lavoratrici

La critica mossa a Belen è quella di non aver prestato abbastanza attenzione al brand al quale concedeva la propria immagine. Inoltre, secondo i fan, al giorno d’oggi è necessario che le celebrità utilizzino la propria popolarità per promuovere dei brand sostenibili piuttosto o addirittura sensibilizzino sull’impatto che la produzione di fast fashion ha sull’ambiente.

Un esempio ne è Emma Watson, promotrice di una moda eco-friendly, cruelty free e prodotta eticamente. Entrata a far parte del comitato per la sostenibilità del Gruppo Kering, si occupa di supervisionare l’impatto ambientale dei più grandi marchi di moda. Dal 2014 è Ambasciatrice ONU per le donne.

Come ribellarsi alla fast fashion?

Jack Seale, del The Guardian, nel recensire l’inchiesta dice “Il problema non è che le persone non sanno cosa comprano. Il problema è che non gli interessa”.

Il caso “Belen” fortunatamente ci sembra smentire questa affermazione. Per molte persone che purtroppo, anche a causa di mancanza di mezzi di sussitenza adeguati, acquistano fast fashion, ce ne sono molte altre che si ribellano a questo sistema consumistico e di impulso.

Sotto i commenti al post leggiamo di proposte quali il vintage o il second hand, brand sostenibili rispettosi dell’ambiente e delle persone che producono gli abiti.

Ci piacerebbe prima o poi che tutte le persone che hanno una risonanza mediatica utilizzassero la loro posizione per essere la voce di coloro che non hanno i mezzi per ribellarsi, che si facessero testimonial dei diritti umani.

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