La parabola di Alphonso Davies: i disagi dei giovani di oggi

copertina Alphonso Davies

Partiamo da una notizia che negli ultimi giorni ha destato abbastanza scalpore nel mondo del calcio: Alphonso Davies, attaccante del Bayern Monaco e della nazionale canadese, arriva a definirsi “un perdente di successo”. Ma cosa ha spinto un ragazzo di 22 anni a fare una dichiarazione del genere?

La favola di Alphonso Davies

A vederla da fuori, la vita del giovane Davies è quella in realtà sognata da molti suoi coetanei che lo guardano dal divano di casa: gioca in una grande squadra, stipendio stellare, uno dei migliori giovani del calcio mondiale, eventi, case e chi più ne ha più ne metta.

Ricordiamo inoltre la storia del ragazzo, celebrato come colui che non era nato sotto una buona stella, ma che si costruisce da solo. I suoi genitori fuggono infatti dalla Liberia dilaniata dalla guerra civile ed Alphonso nascerà in un campo profughi in Ghana. Quando ha tre anni tutta la famiglia emigra in Canada, nazione di cui il ragazzo ha scelto di rappresentare i colori: quella nazione che ha accolto lui e la sua famiglia e gli ha permesso di realizzare i suoi sogni.

E allora perché, ci ripetiamo, Alphonso Davies sembra non essere soddisfatto della sua vita finora?

Il cattivo ha un nome: La solitudine

“Ho tanti soldi, una bella casa, ma a cosa mi servono se non ho nessuno con cui condividerli?” dice. “Avrò cinque amici in tutto qui in Germania e quando io finisco gli allenamenti, loro ancora lavorano e quando finiscono, giustamente sono stanchi. La mia famiglia vive in Canada e la mia ragazza non vive con me. Sono sempre solo. Sono un perdente di successo

Com’è accaduto? Com’è passato dall’essere una giovane promessa del calcio a un “perdente di successo”?

Tutto bene in superficie…o quasi

Diciamo che se stessimo parlando di un lago non vedremmo grandi cambiamenti sulla superficie, ma in profondità. Qualcosa di quel prezioso ecosistema si sta deteriorando. L’ecosistema di cui parliamo e di cui è importante prendersi cura è la nostra psiche.

Eh già, quella famosa “salute mentale” di cui si parla tanto, anche attraverso slogan, ma che viene costantemente trattata come polvere da mettere sotto il tappeto. Alphonso Davies decide di no, di non mettere la polvere sotto il tappeto e gridare al mondo “Aiuto!”.

Alphonso Davies, un ragazzo come noi

Si la sua vita sarà anche bellissima, ma solo in superficie; nel profondo Alphonso non è più quello di prima. Perché Alphonso non è solo un bravo attaccante su cui mettere un prezzo e da trattare come il volto della maglietta che indossa. Alphonso è prima di tutto un ragazzo di 22 anni, che da un giorno all’altro ha dovuto cambiare tutto della sua vita, pur in mezzo a tanti agi.

Non è diverso, almeno in questo, da molti altri ragazzi e ragazze che sono costretti a lasciare casa per studio, lavoro, per andare alla ricerca di nuove opportunità o inseguire i propri sogni. Non tutti hanno il talento e la fortuna di Alphonso Davies e se i suoi problemi sono solo quelli dell’essere lontano dagli affetti, per gli altri si aggiungono, a volte, il non avere un buon alloggio, una paga non adeguata e un lavoro che spesso non è esattamente quello che si pensava.

Tutti questi agenti esterni, piano piano, agiscono sulla nostra salute mentale e magari non lo vediamo subito. Dopo qualche tempo però, iniziano gli sbalzi d’umore, passa la voglia anche di uscire a mangiare una pizza e la rassegnazione comincia ad essere compagna insostituibile delle nostre giornate.

Il vero perdente di questa partita

Però vogliamo dire che nessuno di loro è “un perdente”, che abbia uno stipendio a sei zeri o solo a due. Che sia lontano da casa per diventare un calciatore o per fare il portalettere. Se davvero c’è un perdente in questa situazione, quella è la società moderna. Una società che ci vuole dinamici, smart, pronti a partire per un qualsiasi lavoro e a cambiare vita in uno schiocco di dita.

Poco importa se a lungo termine quello schiocco di dita potrebbe portarci ad essere insoddisfatti, a sentirci soli o, ancora peggio, dei perdenti. Perché vedete, in questa definizione, c’è la rassegnazione più totale, la sensazione di ammettere a se stessi, anche se spesso non è vero, che non valiamo nulla come persone, che abbiamo in qualche modo fallito.

In una società che ci vuole vincenti a tutti i costi, vere e proprie macchine, noi abbiamo il dovere di restare umani. Questo vuol dire essere fragili, ammettere che si hanno delle difficoltà, perché, purtroppo (o per fortuna), la perfezione non esiste. Perciò dobbiamo prenderci cura della nostra salute mentale, perché meglio essere “perdenti” e senza cattivi pensieri, che vincenti e logorati dai mostri della nostra mente.

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