Greenwashing: ombre e inganni del fast fashion

Greenwashing: ombre e inganni del fast fashion

Durante questa breve lettura cercheremo di portarti a conoscenza, o acuire quello che già sai, riguardo un tema molto scottante al giorno d’oggi. Non c’è niente di più attuale, infatti, delle problematiche ambientali, ed è risaputo che le frenetiche modalità con cui ormai le aziende creano i loro prodotti sono insostenibili.

Tuttavia sono tanti, per fortuna, i movimenti ambientalisti che spingono per rovesciare la situazione. Come loro, numerose imprese hanno adottato misure atte a contenere l’impatto ambientale. Ma la società capitalista in cui viviamo fa sì che si trovino spesso scorciatoie comode e proficue a discapito del resto. Questo è ad esempio il caso del greenwashing, una pratica ormai ampiamente diffusa nell’economia mondiale.

Ma facciamo un passo indietro…

Cosa è il greenwashing?

Con il termine Greenwashing si intende una serie di attività compiute da aziende profit con il fine di ingannare i consumatori. Attraverso affermazioni non del tutto vere o fuorvianti si spaccia infatti un prodotto o attività come eco-sostenibile. Quando ciò non corrisponde alla realtà non si danneggia ovviamente solo l’ambiente, ma si ingannano anche i consumatori che dovrebbero essere tutelati. Esistono molteplici tattiche commerciali e di marketing riconducibili a questo fenomeno. Ciò che preoccupa è la varietà con cui il greenwashing è attuabile, che ne rende difficile il riconoscimento e il contrasto.

I motivi che spingono un’azienda a comportarsi in questo modo sono di carattere economico, anche se non mancano motivi di prestigio. Questo perché oggigiorno le aziende eco-friendly godono di una considerazione maggiore rispetto a quelle che non si preoccupano dell’ambiente.

Origini del termine

Il primo a parlare di greenwashing è stato l’ambientalista Jay Westerveld nel 1986. In quegli anni diverse catene alberghiere invocavano la difesa dell’ambiente circa lo spreco dei propri asciugamani da parte dei clienti. A prima vista potrebbe sembrare un gesto nobile, tuttavia così non è. Come riporta l’ecologista, questo appello aveva matrice puramente economica e non mirava alla salvaguardia dell’ambiente.

Il fenomeno del greenwashing ha visto il suo incremento negli anni ’90, quando le aziende, capito il meccanismo, abusavano di questi mezzi. La situazione è sempre peggiorata negli anni, in seguito all’esponenziale aumento della globalizzazione e dei ritmi produttivi. La ramificazione di queste pratiche ha portato la questione a più alti livelli. Proprio per questo motivo è intervenuta recentemente l’ONU ed entro il 2026 verrà promulgata una legge che contrasterà questo fenomeno.

Greenwashing: ombre e inganni del fast fashion

Un fenomeno sistematico in molti brand di consumo

Sebbene l’attenzione verso le dinamiche climatiche non sia nuova, da qualche anno le cose si sono fatte più serie. L’attivismo e la pubblicità di tale problema ha scosso gli animi, portando tutti noi a essere più diligenti. Ad oggi è normale convivere con soluzioni “green”: sempre più frequentemente si usano alternative a materiali inquinanti come la plastica e si limitano gli sprechi. Basta fare un giro in un negozio di abbigliamento per essere bombardati di etichette che incitano all’eco-sostenibilità e al riciclo.

Ma è davvero così? La risposta è no.

Ciò che permette a un’attività come il greenwashing di esistere è proprio l’elevato numero di acquirenti distratti o disinteressati. E’ sufficiente infatti mostrare un’etichetta che riporta colori che ricordano la natura per far credere che la produzione di quel capo rispetti l’ambiente. Questo avviene proprio per la scarsa attenzione dei consumatori, che preferiscono fidarsi del marchio multinazionale piuttosto di verificare quanto riportato. Risulta, purtroppo, un fenomeno tipico nei brand cosiddetti “fast fashion”.

Cosa si intende per fast fashion?

Si tratta di un nuovo approccio alla produzione dei capi d’abbigliamento. I trend volatili di oggi e i costi dei vestiti sempre più elevati hanno spianato la strada a questo nuovo metodo di produzione. Consiste nel produrre una grande quantità di prodotti che, volta per volta, si adeguano alle tendenze imminenti. Per permettere ciò si risparmia sulle materie prime, e in particolar modo sulla forza lavoro. Date queste premesse, è chiaro che questi brand non si fanno scrupoli a lesinare anche mettendo a rischio l’ambiente. Tuttavia non è raro leggere sulle etichette di questi produttori termini come “green” e “eco”, o ancora affermazioni riguardo un fantomatico riciclaggio dei loro prodotti in disuso.

Il caso H&M

L’azienda di moda svedese è stata al centro di accese polemiche durante la scorsa estate. La statunitense Chelsea Commodore, studentessa di marketing all’Università New Paltz di New York, ha riunito le voci di molti acquirenti e ha denunciato il brand. L’accusa è dovuta alle fuorvianti pubblicità su politiche ambientali che, a detta della denunciante, non rispecchiano la realtà.

H&M aveva lanciato da poco una collezione di vestiti. La scelta particolare è stata quella di abbinare a ogni capo un profilo di sostenibilità, dove veniva affermato un consumo di acqua e combustibili fossili minore rispetto alla media. L’azienda ha inoltre aumentato i prezzi per questa novità, giustificandosi e spiegando che il motivo risiedeva proprio nel rispetto dell’ambiente.

Non molto tempo dopo, Quartz ha messo sotto inchiesta la maison svedese, accusandola di aver ingannato i consumatori.

Un caso fra tanti

Quello di H&M non è, purtroppo, un esempio isolato. Sono centinaia i brand che al giorno d’oggi ricorrono a questi strumenti pur di incrementare il loro guadagno. Come si è notato, fra l’altro, non risulta difficile a causa della comune distrazione che aleggia tra i consumatori.

Cosa si può fare, allora, per limitare questo fenomeno?

La risposta può sembrare banale, eppure la principale soluzione risiede proprio nel fatto di prestare maggiore attenzione quando si acquista! Se è vero che lo shopping dev’essere un momento di spensieratezza, è anche vero che controllare un’etichetta non costa nulla. Un’attività del genere non ci ruberebbe che pochi minuti, e sventerebbe quasi completamente il problema.

Ovviamente sarebbe riduttivo minimizzare la soluzione di tale piaga a un rapido controllo di un’etichetta, ma se è la distrazione su cui si basa il greenwashing si può per lo meno intervenire in tal senso.

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