Alberto Sordi e Totò, i giganti di febbraio

Roma, Piazza San Giovanni in Laterano, giovedì 27 febbraio 2003. Alberto Sordi se n’è andato da tre giorni. Il feretro esce dalla Basilica, portato a spalla dai motociclisti della polizia municipale, accolto dalle ovazioni di una folla di 250mila persone. Non sono i funerali di un amatissimo artista. Sono le esequie di un imperatore.

Flashback.

Napoli, Via Santa Maria Antesaecula, rione Sanità, martedì 15 febbraio 1898. Un neonato viene registrato all’anagrafe: “Clemente Antonio, figlio di Clemente Anna, nubile”. La giovane ragazza-madre, neanche a dirlo poverissima, sogna per il bambino un futuro da ufficiale di marina. Il figlio diventerà invece uno dei più grandi attori della storia del cinema italiano (e quindi mondiale). E spenderà gran parte dei suoi guadagni in cause giudiziarie (tutte vinte) per dimostrare di essere figlio di un nobile e per acquisire il titolo di erede al trono di Bisanzio, dismettendo il cognome materno e diventando il Principe Antonio De Curtis, in arte “Totò”.

Due giganti per cui non basterebbe un’enciclopedia, Albertone e il Principe.

Sullo schermo si incrociano una volta sola, in “Totò e i Re di Roma” (1951) di Steno e Mario Monicelli. Totò è un impiegato ministeriale che deve a tutti i costi conseguire la licenza elementare per conservare il posto, Sordi è l’inflessibile maestro che naturalmente lo boccerà. All’epoca del film, entrambi gli interpreti hanno già alle spalle una quindicina d’anni di cinema e qui esprimono in maniera perfetta i propri archetipi: il primo è la maschera tragica (quindi comica) caratteristica della commedia dell’arte, vittima delle avversità ma sempre in piedi; il secondo è il “caporale”, l’arcitaliano pronto a vessare il prossimo non appena dotato di un minimo potere.

Totò-I due mostri sacri si distinguono soprattutto per la capacità di precorrere i tempi. Totò imprime ai tempi cinematografici degli anni ’30 e ’40 un’accelerazione assolutamente inedita. Stravolge i copioni, quasi sempre li ignora, devasta il set spiazzando continuamente i suoi partner. Fa da solo quello che, oltreoceano, Laurel & Hardy, Buster Keaton, il primo Chaplin, hanno fatto con un’intera industria cinematografica a propria disposizione. Per dirla con un clichè: domina la scena, pur supportato da registi validissimi (Mario Monicelli, Steno, Mario Mattoli, Camillo Mastrocinque, Sergio Corbucci e tanti altri) e da straordinarie spalle. Ma davanti a lui, diventano appunto spalle. Attori come i De Filippo o Aldo Fabrizi. Sempre parlando di modernità, è interpretato da lui il primo film italiano a colori, “Totò a colori” (1952) di Steno. Per impressionare la pellicola saranno necessari riflettori potentissimi (tanto da mandargli a fuoco la parrucca) che gli comprometteranno la vista. La stroncatura dei suoi film da parte della critica è sistematica e su tutta la linea. Battute politiche a profusione, trame che spesso alludono alla povertà, presenza di personaggi femminili spesso dall’abbigliamento, per i parametri dell’epoca, “scandaloso” valgono al Principe l’ostilità tanto della critica di sinistra quanto della censura democristiana. In una puntata del “Musichiere” grida “Viva Lauro” (Achille Lauro, l’allora leader del Partito monarchico). Alcuni suoi film, nelle sale, vengono vietati ai minori.

Sordi non si addentra nella politica. Non sfida apertamente la censura. Non improvvisa mai. Sul set è un perfezionista. Diventa l’emblema dell’Italia del Boom, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti negativi. A differenza degli altri grandi suoi pari, i cosiddetti “colonnelli” della commedia all’italiana, non si rifà a un “tipo” consolidato (il “Miles gloriosus” di Gassman, il giullare triste di Manfredi, il mostro della porta accanto di Tognazzi), ma lo costruisce ex novo. I suoi personaggi sono fondamentalmente figli del presente. L’”Americano a Roma” Nando Mericoni esiste perché esistono gli anni ’50. Non è un personaggio della tradizione drammatica trapiantato sullo schermo. Nasce dalla “mania dell’America” del dopoguerra, dai film western, dal tip tap, dai fumetti, persino dalla neonata televisione. Potrebbe essere il padre di Oscar Pettinari, il personaggio di Verdone in “Troppo forte”. Sordi è il paradigma della differenza che separa il cinema di 40-50 anni fa da quello successivo. La comicità di oggi è innocua, ruffiana. Può fingere di non esserlo, camuffandosi sotto la volgarità o il qualunquismo. Albertone è l’emblema di una comicità che non arretrava davanti a nulla . In “Piccola posta”, ad esempio, è il direttore di un ospizio-lager e cerca di far sbranare un’anziana e ricca cliente da due cani feroci.

Grandezza attoriale, predilezione per la scorrettezza politica, capacità di rompere gli schemi. Con una casuale coincidenza, il mese di febbraio sigilla definitivamente le esistenze di due mostri sacri del cinema, le cui carriere si sono solo sfiorate, portando, ognuno nella propria generazione, una ventata rivoluzionaria.

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