Lo schermo e il futuro, filmografia arbitraria

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Per milioni di fan l’attesa è finita. È arrivato il 21 ottobre 2015, data del viaggio avanti nel tempo di Marty e Doc in Ritorno al futuro parte II.

Raduni, proiezioni speciali, grandi eventi, parodie, una miriade di omaggi sui social network. Addirittura un ritorno insieme “davanti alla macchina da presa” per Michael J. Fox e Christopher Lloyd, nello spot di una nota casa automobilistica.

Una delle chiavi principali del successo della saga creata da Robert Zemeckis e Bob Gale è principalmente nella capacità di coniugare un genere fortunatissimo sul grande schermo, il teen movie, la commedia generazionale, con un tema fantascientifico ad alto potenziale narrativo ma non sempre premiato al botteghino, quello del rapporto tra presente e futuro.

Sono tanti i cineasti, anche grandissimi, che, nella storia del cinema, si sono cimentati con il tentativo di immaginare il futuro. Che ci siano riusciti o meno, ecco una breve, personale, (si spera) ragionata rassegna.

L’archetipo. Metropolis di Fritz Lang (1926). Uno dei demiurghi del cinema mondiale immagina una megalopoli cento anni nel futuro. Nel soggetto, tratto da un romanzo della moglie del regista, serpeggiano tutte le inquietudini di un Novecento già in fiamme: il ruolo politico delle masse, l’influenza (positiva o negativa?) della tecnologia, interrogativi su chi siano i veri beneficiari delle rivoluzioni. Lang rinnegò il finale, voluto dalla moglie Thea von Harbou, autrice anche della sceneggiatura e futura sostenitrice di Hitler, con l’arrivo di una “Guida” capace di portare armonia e concordia. Ma scenografie, geometrie, ambienti, soluzioni visive e registiche domineranno il genere fantascientifico per almeno sessant’anni. Non è un caso che gli siano state abbinate, negli anni, molte colonne sonore moderne, compresa quella del nostro Giorgio Moroder.

L’apologo. 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick (1968). Il maestro newyorkese illustra, con la solennità e la maestosità immutabile degli spazi siderali, ciò che Terminator racconterà con esplosioni, massacri e demolizioni: l’uomo vince sempre sulla macchina. Perché la sua mente, a differenza di quella del più perfetto degli automi, è illuminata dall’intervento di un misterioso monolite che, forse, potrebbe rappresentare una volontà superiore. Messaggio filosofico eterno ma il futuro che viene proposto è irrimediabilmente datato.

Il manifesto. Arancia Meccanica di Stanley Kubrick (1971). A Stan va decisamente meglio con il film successivo. Gli anni ’80? I ’90? Il 2000? È un futuro molto più convincente quello in cui si muovono Alex e i suoi “drughi”, ceto impiegatizio di una violenza utilizzata e convogliata dal potere come forma di controllo sociale. Peccato solo che il nostro Affezionatissimo usi ancora le musicassette per ascoltare il “Ludovico Van”. Nessuno è perfetto.

L’outsider. Interceptor di George Miller (1979). In un imprecisato domani post-apocalittico, sono rimasti pochi tutori della legge a fronteggiare i branchi di motociclisti che tiranneggiano le piccole comunità sparse per il deserto. Ma la sete di vendetta è una molla più efficace della sete di giustizia. La prima puntata della saga di Mad Max, realizzata quasi per scommessa con poco più di 200mila dollari, diventa una chiave di volta del cinema australiano e lancia il protagonista Mel Gibson, arrivato al ruolo quasi per caso ma già cuore impavido e arma letale. La forzata povertà di mezzi crea di fatto una messa in scena essenziale che farà scuola.

Il cult. 1997: Fuga da New York di John Carpenter (1981). Usa, Cina e Urss sono in guerra e, alla vigilia del negoziato di pace decisivo, l’Air Force One viene dirottato da terroristi (che lo portano a schiantarsi non lontano dalle Torri Gemelle). Il Presidente si salva ma viene fatto prigioniero dai galeotti di Manhattan, ormai un’immensa prigione a cielo aperto. Deve recuperarlo il disertore “Jena” Plissken (Snake nell’originale) al quale, se il mondo si distrugge o no, non frega nulla. Cupo, teso, beffardo, essenziale come solo Carpenter sa essere. Kurt Russell ha la battuta della vita: “Chiamami Jena”.

Lo scult. L’uomo del giorno dopo di Kevin Costner (1997). Dopo il trionfo di Balla coi lupi, Costner ha conservato a lungo l’ambizione di sfornare altri kolossal. Sfortunatamente i capolavori non si programmano. In un ormai escluso 2013, negli ex-Usa sfaldati dal solito conflitto nucleare e dominati dai signori della guerra, un impostore si finge funzionario postale degli “Stati Uniti Ricostituiti” e rimette in moto suo malgrado il patriottismo della popolazione. Valori americani in abbondanza per un soggetto che non sarebbe male ma, come Waterworld, viene paralizzato dall’immotivata lunghezza e dalla congenita seriosità del protagonista.

La new entry. Interstellar di Christopher Nolan (2014). Alla fine del Ventunesimo secolo, l’umanità è costretta a vivere con poche pretese, su una Terra che sta esaurendo ogni risorsa. La Nasa ha riaperto i battenti di nascosto, alla ricerca di nuovi mondi abitabili. Nolan mescola da par suo fisica quantistica e spirito di frontiera, blockbuster e b-movie, azione e racconto umanista. Inconfondibile la cifra registica: messa in scena solida, sicura di sé, tendenzialmente autoironica, con un debole per la scomposizione temporale. L’attenzione verso il “rigore scientifico” della trama ricorda “Il Signore del Male” di carpenteriana memoria. Una tappa fondamentale nella seconda vita artistica di Matthew McConaughey.

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