Il 25 Novembre, giornata mondiale contro la violenza sulle donne, offre l’occasione perfetta per riflettere su ciò che è stato fatto e su ciò che ancora è da fare: è il caso di dire “non è mai abbastanza”?
Il clamore di una “sollevazione popolare” provoca nella società sentimenti contrastanti: emozione, attesa e speranza di un cambiamento radicale ed imminente per la “parte lesa”; paura, se non terrore, e insicurezza per chi dallo status quo trae sempre e comunque un vantaggio personale o addirittura un profitto economico. Al giro di boa del 25 Novembre, giornata mondiale contro la violenza sulle donne, è lecito chiedersi se esista davvero da parte della collettività un desiderio di metamorfosi per “accorciare le distanze” nella disparità di genere, o se rimanere complici di un atteggiamento indifferente sia alla fine la scelta più comoda.
Il “caso Weinstein” e il “caso Brizzi”: due facce della stessa medaglia?
Sembra quantomeno curiosa la coincidenza con cui, attraverso una reazione a catena, sia stato proprio lo star system femminile hollywoodiano, da sempre complice di una stereotipata pubblicizzazione del corpo femminile, a ribellarsi alle perverse logiche di potere di genere: Il caso del celebre regista americano Weinstein,accusato di molestie reiterate da parte di molteplici attrici (Gwyneth Paltrow, Asia Argento, Angelina Jolie solo per citarne alcune) e il più recente caso che riguarda il giornalista statunitense Charlie Rose, potrebbero però avere un parallelo in Italia: il regista romano Fausto Brizzi.
Se le somiglianze sono stupefacenti (entrambi registi con una carriera consolidata, entrambi denunciati da molteplici attrici o aspiranti tali, entrambi accusati da un’inchiesta giornalistica) esistono però altrettante differenze: i due casi messi a confronto sono paradigmatici di opposte concezioni di violenza: giudiziaria (il diverso limite di tempo che si ha a disposizione per denunciare una molestia), ma soprattutto culturale: mentre ad Hollywood è l’intero circolo mediatico a condannare le molestie (ipocrisia o ammissione reale di colpevolezza?), in Italia gli attori (e le attrici) già ampiamente affermati fanno quadrato attorno al regista, spaccando inevitabilmente l’opinione pubblica.
Perché è importante ricordarsi del 25 Novembre.
I casi citati precedentemente hanno si avuto il merito di alzare un polverone mediatico, alimentando un nuovo dibattito relativo alla disparità di genere, ma nel cercare alternative valide per il futuro è necessario ripensare al passato.
Così La testimonianza del brutale assassinio delle tre sorelle Mirabal (alias Mariposas, le farfalle) nel 25 Novembre del 1960, da parte del regime di Trujillo in Repubblica Dominicana, si lega indissolubilmente ad oggi, e alle donne che fino alla fine hanno combattuto con coraggio per la propria libertà (come Lucia Annibali) .
Nonostante le storie trattate dai media non riescano a risvegliare la coscienza dell’intera società, di fronte a dati certi, a valutazioni razionali prive di ogni strumentalizzazione, sembra impossibile rimanere indifferenti.
Quasi 7 milioni infatti, secondo i dati Istat, sono le donne che nel corso della propria vita hanno subito una forma di abuso. Per non parlare dei femminicidi: Nel 2016 se ne sono contati 120, e anche nel 2017 la media è di una vittima ogni tre giorni. Negli ultimi dieci anni le donne uccise in Italia sono state 1.740, di cui 1.251 (il 71,9%) in famiglia.
Il pericolo nascosto dietro l’angolo.
E se il mondo reale è dominato da scenari di violenza (verbale e fisica) anche quello virtuale non si risparmia: un recente sondaggio commissionato da Amnesty International e condotto in otto paesi da Ipsos Mori, il 23% delle donne intervistate in tutti i paesi , quasi un quarto ,ha subito abusi o molestie online.
Quello di internet effettivamente è un tema spesso bistrattato, proprio perché sottovalutato; questo tipo di negligenza però non fa altro che alimentare un sentimento di odio diffuso che rende vittoriosi i classici “leoni da tastiera”.
Tra le donne intervistate che hanno affermato di aver subito abusi online o molestie, il 26% ha dichiarato di essere stato minacciato (direttamente o indirettamente) di violenza fisica o sessuale. In alcuni casi, tali minacce possono rapidamente riversarsi nel mondo offline.
Senza contare altre forme di violenza psicologica, in grado di distruggere letteralmente una persona: si passa in un lampo dalla condivisione di contenuti discriminatori al cosiddetto “doxxing”, cioè la divulgazione online di documenti personali senza consenso.
Il momento della sollevazione collettiva.
A fronte di dati sempre meno confortanti e di scenari di violenza gratuita e quotidiana, c’è chi continua a lottare per imporre una parità di genere che sia reale, così come per porre fine ai soprusi da sempre accettati o giustificati per paura.
Una particolare forma di storytelling collettivo nasce in seguito alla creazione e all’utilizzo, da parte di migliaia di donne, degli hashtag #metoo e #quellavoltache; dalla rete prende vita una forma di narrazione insolita, in cui la collettività femminile si riunisce e racconta pubblicamente il proprio episodio di molestia subita: un racconto privato della vergogna che ha il sapore della rivincita, se non della liberazione.
Se a Milano, alla “Casa delle Arti Alda Merini” nascerà un nuovo Wall of Dolls, è Roma il vero teatro della ribalta nella conquista di una coscienza femminile; durante la manifestazione nazionale infatti, “Non una di meno” ha deciso di presentare il Piano femminista contro la violenza maschile e di genere, un documento di analisi e proposte scritto da migliaia di donne che si basa su un semplice presupposto: la violenza maschile contro le donne è sistemica, attraversa cioè tutti gli ambiti della vita femminile e si fonda su comportamenti radicati.
La comunicazione non verbale.
Si dice che un’immagine valga più di mille parole; l’impatto visivo scioccante e destabilizzante è proprio ciò che ha aspirato a suscitare la mostra “What are you wearing?” : una mostra-denuncia che mentre fa il giro dei campus universitari degli Stati Uniti, non solo scardina l’antica equazione abiti provocanti= molestie ma, attraverso la comunicazione non verbale dei vestiti, sprigiona sentimenti di dolore e privazione a cui le vittime sono costrette.
Anche i “big” ci mettono la faccia.
Colpisce dritto al cuore il nuovo spot pubblicitario lanciato da Ikea, in collaborazione con l’associazione Telefono Donna, proprio in occasione del 25 Novembre e della campagna di sensibilizzazione #perunagiustacasa; nel breve video, intitolato ‘‘La casa non è fatta per difendersi”, le immagini esplorano il disagio di una coppia mentre si muove tra gli ambienti allestiti di un negozio Ikea con l’intento di scegliere gli arredi. In un crescendo di tensione, il video mostra la donna soppesare gli oggetti e nascondersi come fosse alla ricerca di uno spazio per difendersi; il luogo sicuro diventa una prigione, dove ogni oggetto si trasforma in una possibile arma.
L’intento per scardinare una “presunta supremazia” maschile sembra esserci; l’intervento da parte delle istituzioni per garantire maggiori tutele attraverso nuove leggi è richiesto a gran voce; è il caso di dire “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”?