Come un piatto popolare è diventato un archivio vivente di incontri e trasformazioni.
Ci sono piatti che diamo per scontati, come se fossero sempre stati lì: rassicuranti, familiari, con il sapore delle cucine in cui tutti noi siamo cresciuti. La cotoletta è uno di quei piatti. Ma basta seguirla lungo la sua storia per scoprire che sotto quella crosta dorata non c’è immobilità: c’è movimento, viaggio, c’è qualcosa che passa da una mano all’altra.
E c’è, quasi senza volerlo, un’idea di sostegno reciproco che attraversa secoli e confini.

Milano o Vienna? La risposta che non ti aspetti
La prima domanda è quella di sempre: Milano o Vienna? Nessuna delle due
Le prime forme riconoscibili di cotoletta moderna nascono nella Londra del Settecento, dentro una taverna molto in vista, al Pontack’s Head, dove cuochi francesi cucinavano per una borghesia inglese curiosa e con il gusto per le novità. È qui che la panatura francese (panée à l’Anglais) si semplifica e si adatta: una fettina di carne cruda, spennellata con uovo, passata nel pangrattato aromatizzato, poi rosolata in padella. Una rivoluzione silenziosa che unisce tecnica e pragmatismo, dando vita alla prima cotoletta così come la intendiamo oggi.
Il mito milanese e l’enigma del lombolos cum panitio
La storia potrebbe tranquillamente chiudersi a Londra. E invece no: mentre lì la cotoletta prendeva forma, a Milano iniziava a farsi strada una narrazione molto diversa.
Tutto nasce da un documento del 1149, una sentenza che riporta gli atti di una disputa tra i canonici di Sant’Ambrogio e l’abate incaricato del pranzo della festa. Il tribunale arcivescovile, chiamato a dirimere la questione, registrò con estrema precisione l’intero menu previsto per quell’occasione: nove piatti, suddivisi in tre portate, un piccolo affresco culinario del Medioevo milanese.
Tra polli freddi, torte salate e maialini ripieni, spunta un nome destinato a creare più problemi che certezze: lombolos cum panitio.
È un’espressione che ha messo in difficoltà generazioni di studiosi. I primi a interrogarsi sul significato, già nel Settecento, furono storici del calibro di Giorgio Giulini e Pietro Verri: entrambi riconobbero l’importanza della lista dei piatti, ma si arresero presto di fronte a quei nomi indecifrabili, dichiarando apertamente di non essere in grado di capirne il significato.
La svolta arriva circa un secolo dopo, quasi per caso. Nel 1837, il barone Pietro Custodi, curando una nuova edizione della Storia di Milano di Pietro Verri, aggiunge una nota a piè di pagina in cui interpreta il piatto come «lombetti col panico, (o con pane gratuggiato)». Una precisazione minima, quasi marginale, ma che apre due scenari: il panico, ancora poco chiaro, e il pane gratuggiato, improvvisamente molto familiare. E se quel lombolos cum panitio fosse una primitiva cotoletta?
A quel punto l’interpretazione di Custodi diventa una tentazione irresistibile. L’idea che la cotoletta fosse già sulla tavola dei canonici nel 1149 è troppo affascinante per lasciarla andare: dà a Milano una storia antica, nobile, quasi inevitabile. E così, nel corso dell’Ottocento, quella lettura comincia a consolidarsi. Altri studiosi la riprendono, qualcuno la amplifica, qualcun altro la ritocca finché diventa una verità comoda e condivisa. Un esempio perfetto di come i miti gastronomici si costruiscano: non perché siano corretti, ma perché funzionano.
Il fatto, però, è un altro. Panitio indica una polenta dura di miglio panico, tagliata e servita a fette. Una preparazione lontanissima da una cotoletta. Eppure l’equivoco attecchisce, cresce, si autoalimenta: più la città rivendica la sua “antichità panata”, più il racconto prende forza.
Qui entra in gioco la parte più interessante: osservare come da uno sbaglio interpretativo, da una lettura entusiasta, dal desiderio collettivo di riconoscersi in un simbolo, una comunità costruisca identità. La cotoletta milanese diventa così una storia di identità costruita insieme: un piatto che vive perché le comunità hanno scelto di sostenerlo, raccontarlo, tramandarlo.
Dalla Francia al Giappone: la vera mappa delle contaminazioni
Il viaggio prosegue, ma con traiettorie molto diverse da quelle che immaginiamo.
In Francia, la panatura non nasce per dare croccantezza – un’ossessione tutta moderna – ma come soluzione tecnica per tenere insieme impasti morbidi, polpette delicate, ripieni che senza una crosta resistente perderebbero forma. È una funzione più che altro pratica.
La Russia raccoglie proprio quel filone e lo porta altrove: la kotleta è una polpetta di carne passata nell’uovo, nel pangrattato e poi fritta. Assomiglia a una cotoletta solo da fuori.
E negli Stati Uniti la trasformazione accelererà ancora. Qui l’incontro tra ricette europee e memoria degli emigrati genera nuove forme: dagli anni Cinquanta compaiono nei ristoranti italiani d’America le prime versioni di pollo alla parmigiana, con impanatura, salsa di pomodoro e formaggio fuso. È un passaggio graduale, che convive a lungo con la cotoletta di vitello alla parmigiana. Ma a poco a poco il pollo si impone per gusto, disponibilità e abitudini alimentari, e la chicken parmesan diventa uno dei piatti simbolo della cucina Italo-Americana: una reinterpretazione più che un’eredità diretta, nata da adattamenti successivi e da un immaginario condiviso.
E poi c’è il Giappone, dove la cotoletta arriva nell’Ottocento attraverso i primi ricettari di cucina occidentale, in pieno clima Bunmei-kaika. Le prime preparazioni sono chiamate katsuretsu – semplice traslitterazione dell’inglese cutlets – e ricalcano fedelmente i modelli europei dell’epoca: a volte brasate, a volte panate e fritte, più spesso di manzo che di maiale. Ma in Giappone la cotoletta cambia forma e destino: viene adattata agli ingredienti disponibili, resa più spessa, più succosa, più croccante. E soprattutto prende un nuovo nome. Con il tempo katsuretsu viene accorciato in katsu – un’abbreviazione immediata, più facile da pronunciare e perfettamente in linea con l’abitudine giapponese di semplificare i termini stranieri. Da qui nascono tonkatsu (maiale), gyukatsu (manzo) e tutte le varianti moderne. Nel giro di pochi anni la katsu diventa così radicata da sembrare un piatto autoctono: l’ultima arrivata nell’universo delle cotolette, ma anche la più capace di reinventarsi.
Nessuno di questi passaggi è lineare. Eppure tutti compongono una mappa coerente, in cui ogni cultura aggiunge qualcosa senza cancellare ciò che c’è stato prima. È un processo di contaminazioni che non distrugge le identità, ma le amplifica.
Tre Italie, tre cotolette
Lo stesso vale per l’Italia, dove ogni città sembra aver modellato la cotoletta secondo la propria storia gastronomica. La Bolognese è la prima a comparire nei ricettari: la versione ottocentesca non somiglia del tutto a quella che conosciamo oggi, perché in origine prevedeva il tartufo prima che, col tempo, lasciasse spazio al prosciutto e al formaggio. È un esempio perfetto di come una variante “locale” possa nascere non da un’origine antica, ma da mode e adattamenti successivi.
La Palermitana è invece l’esatto opposto: un reperto gastronomico del Seicento sopravvissuto quasi intatto. Non è fritta, viene cotta alla piastra o al forno, semplicemente passata nel pangrattato, senza uovo: ha trovato a Palermo il suo habitat naturale, mentre altrove preparazioni simili sono scomparse. Una ricetta che continua a esistere più per fedeltà culturale che per affinità tecnica con le altre cotolette.
La Valdostana, infine, è la più recente delle tre e ha una storia quasi “costruita”: prima degli anni Trenta non se ne trovano tracce concrete, poi nel dopoguerra diventa improvvisamente un simbolo identitario, al punto da spingere alcuni valdostani a riunirsi negli anni Quaranta – in incontri semi-ufficiali – per decidere quale fosse la “vera” ricetta. Una tradizione giovane, ma difesa come se fosse millenaria.
Tre storie diverse, tre idee di cotoletta che non combaciano tra loro e che raccontano la stessa verità: ciò che chiamiamo “piatto tradizionale” è quasi sempre il risultato di evoluzioni, aggiustamenti, invenzioni, difese e compromessi.
Identità: una costruzione collettiva
Il punto del libro – e di conseguenza di questo articolo – non è smontare le identità, ma capire come si formano davvero. Le ricette cambiano perché cambiano le persone, i contesti, le disponibilità degli ingredienti. Sopravvivono grazie agli scambi e ai passaggi di mano. Se togliamo questa dimensione collettiva, resta poco da rivendicare.
È anche per questo che oggi nessuno si sorprende più se parliamo di cotoletta di pollo o di cotoletta di melanzane: il termine si è ampliato perché si è ampliato il modo in cui cuciniamo. Non indica più un taglio preciso, ma un metodo.
Alla fine, la questione non è decidere se la cotoletta “vera” sia milanese o viennese, né individuare un inventore unico. La storia mostra tutt’altro: idee che viaggiano, si trasformano, vengono adottate e rilette da comunità diverse. Nessuno ha posseduto la cotoletta in modo esclusivo, e forse proprio per questo è diventata così riconoscibile ovunque.
Sotto la panatura c’è questo: un piatto costruito da molte culture, che non si ferma davanti ai confini e continua a cambiare. Un esempio semplice ma concreto di come l’identità gastronomica funzioni davvero: per stratificazione, per continuità di gesti, per contributi successivi.
A volte basta una cotoletta per ricordarlo.

