Dalla Sicilia alla Calabria, dalla Puglia alla Sardegna: mango, avocado, papaya, pitaya e annona maturano al sole del Sud. Storie di aziende agricole, frutta tropicale, filiera corta e una visione che trasforma il futuro dell’agricoltura mediterranea.
Un Sud che guarda avanti
Non è più una curiosità da bancarelle etniche. Tra gli ulivi e gli agrumi del Sud Italia oggi crescono mango, avocado, papaya, dragon fruit (pitaya) e tanto altro ancora. Un tempo arrivavano solo dai container dei porti.
Oggi maturano al sole di casa nostra e portano con sé il sapore di una rivoluzione agricola che unisce Sud e futuro. Non è un dettaglio folcloristico: è un cambio di prospettiva. È la dimostrazione che il Mediterraneo, messo alla prova dal clima, sta riscrivendo se stesso.
E che il Sud non risponde con rassegnazione, ma con un gesto di visione: trasformare il cambiamento in opportunità.
Secondo Coldiretti, le superfici dedicate ai frutti tropicali hanno superato i 1.200 ettari concentrati per lo più in Sicilia, Puglia e Calabria. Dal 2019 gli acquisti di avocado sono cresciuti del 317%, mentre le vendite di mango sono cresciute del 12,6 % nel solo 2024.
Non è più un settore marginale: è una filiera che prende forma. Agricoltori recuperano campi abbandonati, nuove generazioni che tornano alla terra.
Dietro questi numeri ci sono storie di agricoltori che hanno deciso di cambiare rotta.
Calabria: tra tradizione e innovazione
Nella piana di Gioia Tauro, a Rosarno, si trova una delle esperienze più significative della frutticoltura tropicale italiana: The Exotic Farm, di Antonio Paladino. La piccola farm, nata da un’intuizione personale, coltivata negli anni con passione, oggi rappresenta un punto di riferimento per chi ama scoprire e conoscere nuove piantagioni.

Il cuore dell’azienda è il dragon fruit o pitaya. Antonio Paladino ne custodisce una collezione di oltre 90 cultivar, provenienti da diverse aree del mondo. È una vera e propria banca genetica vivente, unica in Italia.
Fa di questa piccola azienda agricola di Rosarno una delle realtà più interessanti della frutta tropicale a km 0.
Ma non c’è solo il dragon fruit. Tra i filari e le serre di The Exotic Farm crescono anche guava, kiwano, passion fruit, pitanga, yuzu e molto altro. Ogni pianta è seguita con attenzione e inserita in un disegno agricolo che valorizza la biodiversità come patrimonio.

Le coltivazioni si sviluppano in un equilibrio costante tra natura e tecnica. Serre leggere che modulano luce e ventilazione, sostegni che guidano le piante rampicanti, irrigazione ridotta al minimo grazie all’uso dell’acqua piovana e all’umidità notturna. Ogni pianta è seguita manualmente, osservata giorno dopo giorno, in un modello di agricoltura artigianale e sostenibile che ha la qualità come obiettivo principale.
La pitaya, che fiorisce di notte con corolle bianche o viola spettacolari, viene raccolta da luglio a ottobre, creando una stagionalità inedita nel panorama agricolo italiano.
Una rete agricola che cresce dal basso
The Exotic Farm è anche un luogo di condivisione e scambio. Con la community “Pitaya Italiana”, Paladino ha creato una rete che unisce coltivatori e appassionati, favorendo la diffusione di conoscenze e la nascita di nuove collaborazioni.
La sua frutta tropicale non viene destinata soltanto al consumo fresco. È utilizzata anche per sperimentazioni in cucina, dolci e salate: dalle preparazioni artigianali come i gelati fino a ricette innovative che esaltano le caratteristiche aromatiche di ogni varietà. Sempre più spesso, realtà come The Exotic Farm entrano nei racconti e nei progetti che danno voce a un’agricoltura calabrese capace di innovare senza perdere il legame con la propria terra.
Sono spunti preziosi per chi vuole scoprire da vicino come nascono questi frutti e quali prospettive aprono per il futuro.
Annona di Reggio e nuove generazioni di produttori
Accanto a questa realtà giovane e sperimentale, la Calabria custodisce anche storie più radicate
La frutticoltura tropicale calabrese ha radici più lontane di quanto si immagini. L’annona cherimola (o cherimoya) fu introdotta in Italia circa 200 anni fa dagli Spagnoli, trovando nella fascia costiera tra Scilla e Pellaro, a Reggio Calabria, un ambiente perfetto: terreni sabbiosi, microclima mite e umidità costante. È in questa striscia di terra che l’annona si è acclimatata al punto da diventare una coltura tipica, molto prima che la frutta tropicale prendesse piede in altre regioni del Sud.
Oggi l’annona gode del riconoscimento della De.C.O. – Annona di Reggio, che tutela le aree di produzione più vocate e valorizza questo frutto come patrimonio identitario del territorio.
In questo contesto si colloca l’Anoneto Bilardi, nato nel 1988 grazie al dottor agronomo Domenico Bilardi e a sua moglie Stefania. Decisero di partire dagli impianti di annona nella zona di Catona, dove questo frutto trova condizioni microclimatiche e pedoclimatiche ideali. Ben presto l’azienda divenne pioniera della produzione di frutti esotici in Calabria, avviando esportazioni in Italia e in Europa.
Dal 2018, l’attività è portata avanti dai fratelli Bilardi, che hanno raccolto l’eredità del padre innovando nel rispetto della tradizione. Oggi coltivano annona, mango, avocado e passion fruit, affiancati dagli agrumi – arance, limoni e bergamotto – già curati dal nonno Francesco.
La filosofia resta la stessa. Frutti raccolti al giusto grado di maturazione e distribuiti tramite filiera corta, per offrire prodotti autentici, freschi e incomparabili rispetto a quelli d’importazione.
Sicilia: dall’Etna al Messinese, una nuova geografia agricola
Contrariamente a quanto si possa pensare, la frutticoltura tropicale in Sicilia non è nata negli ultimi anni. Non è soltanto conseguenza dei cambiamenti climatici. Le prime coltivazioni sperimentali di avocado e mango risalgono infatti tra la fine degli anni ’50 e la fine degli anni ’60, lungo la fascia costiera ionica etnea tra Acireale e Fiumefreddo. È qui che il Dott. Francesco Russo della Stazione Sperimentale di Agrumicoltura di Acireale (CREA) e il Prof. Giovanni Continella dell’Università di Catania introdussero materiale vegetale proveniente dall’America. Condussero le prime ricerche sul campo, gettando le basi di quella che oggi viene riconosciuta come la culla storica della frutticoltura tropicale siciliana. Grazie al microclima unico dell’Etna – il più piovoso del Sud Italia, con suoli vulcanici e fertili – questa area è diventata la vera capitale del tropicale siciliano.
Sicilia Avocado: un’eredità familiare che si rinnova
Su queste radici si innesta l’esperienza di Andrea Passanisi, che, a Giarre, alle pendici dell’Etna, ha fondato Sicilia Avocado nel 2003. La sua famiglia possedeva terreni coltivati a limoni sin dal Settecento, con una tradizione agricola solida ma in parte interrotta. Alcuni appezzamenti erano produttivi, altri lasciati incolti. Dopo un viaggio in Brasile negli anni ’90, Andrea intuì la possibilità di ridare vita a quei campi. Con il padre valutò diverse strade: dall’allevamento di struzzi e lumache alla coltivazione di avocado. Scegliendo quest’ultima non come rottura con il passato, ma come evoluzione naturale dei limoneti di famiglia.

Oggi Sicilia Avocado produce avocado, mango, passion fruit, annona e feijoa. Solo di avocado si contano circa 1.400 tonnellate annue, raccolte tra novembre e marzo. Attorno all’azienda è nato un consorzio di 42 imprese agricole, il 90% dislocate sul versante etneo e Messina. Dispone di un impianto di confezionamento dedicato e produce il primo olio di avocado italiano ottenuto da frutti selezionati.
Il successo di queste colture non è una semplice conseguenza del riscaldamento globale. L’avocado non è una pianta “da caldo”, ma da terreno e microclima specifici. A Giarre, piogge abbondanti, suoli sabbiosi e un’umidità costante che mantiene stabili le temperature tra 15 °C e 30 °C. Sono condizioni ideali, spesso più stabili e equilibrate di quelle di molti paesi esportatori.
Papaya di Sicilia e la sfida della trasformazione artigianale
Tra Palermo e Messina, Luigi Speciale ha creato Papaya di Sicilia: fino al 2013 lavorava nel campo dell’archeologia, poi ha deciso di dedicarsi interamente alla papaya, investendo nella coltivazione. Dispone di circa 5.000 mq di serre, di cui 2.000 mq sono destinati esclusivamente alla papaya. La produzione annuale stimata in circa 5 tonnellate. La coltivazione è 100 % siciliana e votata all’ecosostenibilità: si utilizzano acqua, suolo e stallatico, evitando qualsiasi trattamento chimico.
Una fetta significativa della produzione è trasformata: l’azienda produce confettura extra di papaya al 70 %, con circa 2.000 barattoli distribuiti in tutta Italia. La vendita avviene sia attraverso canali specializzati che direttamente al consumatore. Oltre alla papaya, l’azienda coltiva mango (varie cultivar), avocado, passion fruit, litchi e guava. In chiave futura, Papaya di Sicilia sta sperimentando nettari di papaya e mango e confetture extra di mango, puntando a diversificare e valorizzare le proprie produzioni.
Agribio Jalari: quando l’agricoltura incontra la cultura
Sempre in Sicilia, nel messinese, opera anche Agribio Jalari, una realtà che unisce agricoltura e cultura in modo unico. L’azienda viene fondata nel 1992 e dal primo momento sceglie la strada del biologico, inserendosi all’interno del più ampio Parco-Museo Etnografico Ambientale Jalari di Barcellona Pozzo di Gotto: un centro di memoria, arte e comunità.
Agribio Jalari nasce come produttrice di agrumi biologici – arance e limoni coltivati senza l’uso di sostanze chimiche – e nel tempo amplia il proprio orizzonte. Introduce avocado, papaya, mango e molto altro, portando così la biodiversità tropicale accanto alle colture mediterranee tradizionali. Ogni frutto è certificato da Suolo & Salute e tutelato dal marchio CE (Reg. CE 207/92), garanzia di tracciabilità e qualità.
Il modello agronomico è basato su una filiera biologica integrale. Coltivazione, raccolta e trasformazione seguono lo stesso principio di rispetto della terra. Le pratiche adottate mantengono la fertilità naturale del suolo ed evitano input chimici esterni. Non si tratta quindi solo di coltivare frutti, ma di costruire un sistema agricolo che sia al tempo stesso sostenibile ed educativo.
L’aspetto che rende Jalari davvero particolare è la sua capacità di legare l’agricoltura al racconto del territorio. I visitatori che entrano nel Parco non trovano solo campi e serre, ma un percorso etno-antropologico fatto di laboratori, mostre e attività formative. Si va dalla conoscenza delle piante tropicali alla riscoperta degli antichi mestieri locali. È un’esperienza che va oltre la produzione, perché intreccia la quotidianità contadina con la dimensione culturale e comunitaria.
In questo senso, la tropicalizzazione di Agribio Jalari non è soltanto una risposta al mercato o al clima. Diventa un progetto identitario, un modo per valorizzare la biodiversità come bene comune e come ponte tra passato e futuro.
Puglia: resilienza e nuove colture
In Puglia, l’arrivo della frutta tropicale non nasce solo dal desiderio di sperimentare, ma dalla necessità di reagire a crisi profonde. Negli ultimi dieci anni la Puglia è stata colpita duramente dalla Xylella, che ha devastato milioni di ulivi mettendo in ginocchio l’economia agricola e l’identità stessa del paesaggio. In questo vuoto si è aperto lo spazio per nuove colture: avocado, mango, papaya, lime e perfino microgreens, scelti come sia risposta alla perdita di alberi secolari, ma anche come scommessa sul futuro.
Dal Salento a Mola di Bari: nuovi modelli di rinascita agricola
In alcune aree del Salento, ad esempio, appezzamenti un tempo destinati agli ulivi sono stati riconvertiti con impianti di mango e avocado, un gesto che rappresenta non solo una diversificazione produttiva ma anche un modo di dare nuova vita a terreni altrimenti destinati all’abbandono.
Accanto a queste coltivazioni, la Puglia si distingue anche per esperienze più di nicchia, ma altrettanto significative.
A Mola di Bari, l’agronomo Carlo Mininni con OrtoGourmet ha puntato su circa 50 varietà di microgreens e fiori eduli. Le sue coltivazioni crescono da aprile a ottobre in serre non riscaldate. Sfruttano le lunghe estati pugliesi e sono destinate soprattutto alla ristorazione gourmet.
Non si tratta solo di erbe decorative, ma di ingredienti capaci di cambiare un piatto con pochi grammi. Tra le varietà più apprezzate c’è l’erba fungo, dal colore verde intenso e dalla consistenza carnosa, con un sapore che ricorda i porcini unito a note erbacee e nocciolate.
Lo shiso rosso, invece, colpisce per le foglie ampie dal colore rosso-violaceo e per il profumo aromatico che richiama basilico, menta e anice, regalando un gusto fresco e leggermente speziato. L’origano cubano offre un aroma complesso, che combina origano, timo e maggiorana con un sentore canforato, mentre il tagete, fiore dai colori accesi, aggiunge una nota agrumata e leggermente piccante ai piatti.
La Puglia tropicale tra sfide e rinascita
I dati diffusi da Coldiretti e da studi settoriali confermano la tendenza: negli ultimi anni la superficie destinata a colture tropicali in Puglia è triplicata, comprendendo non solo avocado e mango, ma anche lime, bacche di Goji e papaya, con sperimentazioni che si moltiplicano soprattutto nelle aree più vocate
Queste storie mostrano come la tropicalizzazione in Puglia non sia una moda, ma una risposta a una crisi e un atto di resilienza. Dalla lotta contro la Xylella alla ricerca di nuove nicchie di mercato, la regione sta costruendo un’agricoltura che guarda avanti senza dimenticare le sue ferite recenti.
Persea: avocado biologico e agricoltura rigenerativa tra Sardegna e Calabria
Se le esperienze siciliane e calabresi hanno dimostrato come il tropicale possa nascere da singoli pionieri, con Persea ci troviamo davanti a un modello agricolo di scala diversa: 700 ettari tra Sardegna e Calabria, con l’obiettivo di produrre avocado biologico 100% italiano attraverso un approccio di agricoltura rigenerativa. Le varietà coltivate includono Hass, Ettinger, Bacon e Fuerte, selezionate per qualità e adattabilità.

Il modello non si limita alla coltivazione ma lavora su un equilibrio tra produzione e ambiente. Oltre il 35% dei terreni è destinato a flora spontanea e zone umide, con più di 1.500 arnie che sostengono l’apicoltura e la biodiversità. Ulivi ed eucalipti vengono utilizzati come frangivento naturali e corridoi biologici, integrando così pratiche agricole e tutela del paesaggio.
La gestione dell’acqua è uno dei punti centrali: Persea utilizza sistemi di irrigazione a goccia che permettono di ridurre i consumi fino al 30%, e dichiara che una parte dell’acqua viene reimmessa in falda, contribuendo al riuso delle risorse idriche.
Tecnologia, sostenibilità e monitoraggio ambientale
Inoltre, l’azienda arricchisce i terreni con compost e biochar prodotti in proprio e con l’impiego di colture di copertura. Queste tecniche migliorano la fertilità, favoriscono il sequestro di carbonio, prevengono l’erosione e riducono i consumi idrici grazie alla capacità del terreno di trattenere l’umidità. Le cover crop, inoltre, fissano l’azoto atmosferico, attraggono insetti utili e limitano le infestanti, aumentando la resilienza complessiva degli impianti.
Anche la zootecnica entra a far parte del ciclo agricolo: le galline ovaiole pascolano tra gli alberi di avocado, contribuendo alla fertilizzazione naturale e al controllo dei parassiti. A questo si affianca l’uso di tecnologie di monitoraggio digitale in tempo reale, che permettono di seguire parametri come l’umidità del suolo e i consumi idrici, ottimizzando ogni intervento.
Con questa combinazione di pratiche, Persea rappresenta una delle esperienze più avanzate di tropicalizzazione in Italia: non solo produzione di avocado, ma un modello che integra filiera corta, sostenibilità e rigenerazione ambientale.
Frutta tropicale a km 0: il valore della filiera corta
Un elemento unisce quasi tutte queste realtà: la scelta della filiera corta. Mercati contadini ed e-commerce garantiscono frutti raccolti al giusto grado di maturazione e consegnati entro 24-48 ore. La differenza sensoriale è netta rispetto all’import, perché un mango maturato sull’albero non ha nulla a che vedere con uno raccolto acerbo e spedito per migliaia di chilometri.
Secondo uno studio indetto da Coldiretti già nel 2019, il 61% degli italiani comprerebbe più frutta tropicale se fosse prodotta in Italia, e il 71% sarebbe disposto a pagarla di più se a km 0. La domanda è quindi forte, ed è trainata anche dalla curiosità dei consumatori nel riscoprire una nuova stagionalità: avocado da ottobre a marzo, mango in autunno, papaya quasi tutto l’anno, pitaya da agosto a ottobre.
Il futuro della frutta tropicale in Italia: il Sud che innova
Queste storie non sono episodi isolati: compongono una visione comune. La tropicalizzazione agricola non è un’esotizzazione del paesaggio, ma un adattamento che diventa identità. In Sicilia, in Calabria, in Puglia e in Sardegna, le coltivazioni tropicali si affiancano a ulivi e agrumi, non per sostituirli ma per continuare a dare senso al territorio e ci dimostrano che il Mediterraneo può essere fertile terreno per colture un tempo impensabili, creando nuova economia e nuovi racconti culturali.
È un futuro che nasce dal basso: dalla scelta di famiglie, cooperative e giovani agricoltori che hanno deciso di trasformare i cambiamenti climatici in opportunità. In un Sud spesso raccontato come fermo, qui si intravede un movimento opposto: innovativo, concreto, radicato. Una visione che parla di resilienza, di ritorno alla terra e di nuove stagioni che non cancellano, ma arricchiscono, quelle antiche.
Il quadro tracciato non è esaustivo: non abbiamo potuto includere tutte le realtà, ma le aziende che oggi investono nel tropicale in Italia sono decine, se non di più, segno di un movimento diffuso e in crescita. È una rivoluzione agricola silenziosa, che sta ridisegnando paesaggi e mercati, e che pone il Sud come laboratorio di un futuro sostenibile e sorprendente.

