Il rap come sostegno, la vita come resistenza: la storia di Kento

Primo artista a bordo di una ONG, Kento trasforma il rap in sostegno: dal Mediterraneo alle carceri minorili, voci di speranza e resistenza.

C’è una parola che Francesco Carlo, in arte Kento, sceglie per definirsi: “curioso”.

Non “rapper”, non “scrittore”, non “militante” – anche se è tutto questo insieme.

Non è una definizione leggera. Per lui la curiosità artistica e civile non è un gioco intellettuale, ma un modo di stare al mondo: significa mettere continuamente in discussione sé stesso, accettare la fatica del dubbio, non accontentarsi di una sola versione dei fatti. “È bello sfidare le proprie convinzioni, farsi venire nuovi dubbi e ascoltare punti di vista diversi”, dice. È la lezione imparata da bambino, quando la maestra gli ripeteva di non leggere un solo giornale, ma tre, quattro, cinque.
Da allora Kento ha continuato a coltivare quel metodo: confrontare, scavare, cercare l’angolo che manca, anche quando è scomodo.

Questa curiosità diventa scrittura: le prime barre appuntate sui fogli da ragazzino negli anni ’90, poi gli album, ilibri, i podcast, i TEDx, fino al teatro. Ma si traduce anche in scelte di vita radicali, come imbarcarsi su una nave di soccorso nel Mediterraneo (Ocean Viking di SOS Méditerranée), diventando il primo artista musicale a vivere in prima persona un’operazione di ricerca e salvataggio, o varcare per quindici anni le porte degli istituti penali minorili in Italia per portare laboratori di rap e offrire voce a chi non ne ha. Sempre con lo stesso principio che appartiene alla cultura hip hop fin dalle origini: keep it real.

Kento non racconta storie per sentito dire. Porta sulla scena solo ciò che ha visto, toccato, vissuto. Perché, come ripete, “non puoi parlare di quello che non sai”, ed è questo che rende autentico il suo rap e la sua scrittura.

Ed è proprio qui che Kento mette a fuoco il senso più profondo di quell’esperienza: “Ho visto persone che, se noi non gli tendevamo la mano, sarebbero morte. E noi semplicemente abbiamo fatto una scelta che non dovrebbe avere alcun merito, nessun valore politico. Perché se c’è un essere umano che sta morendo e tu lo salvi, non stai compiendo un atto eroico: stai facendo ciò che dovrebbe essere naturale”.
Poi aggiunge: “Dovresti essere un folle a lasciarlo morire, privo di ogni umanità. Alla fine, da quella missione mi porto dietro questo: ti spogli di ogni significato politico, ti spogli anche di ogni merito. Resti solo davanti a una domanda semplice: c’è un uomo che sta morendo, tu che fai? Lo lasci andare o lo salvi?”.

Ocean Viking: la paura, la musica, la verità del mare

Quando Kento è salito sulla nave di ricerca e soccorso Ocean Viking nel Mediterraneo con SOS Méditerranée, l’idea iniziale era semplice: portare musica e parole. Osservare, provare a realizzare un concerto a bordo, magari la scrittura di un brano. Ma presto la missione lo ha trascinato oltre ogni previsione. Prima settimane di training online, poi l’addestramento a bordo. “Anche gli osservatori devono formarsi”, spiega. “Dopo qualche giorno mi hanno chiesto se volevo occupare un posto sui gommoni di primo soccorso. Ho accettato subito”.

Da quel momento la sua esperienza è cambiata radicalmente. Ha imparato a fare il massaggio cardiaco ai neonati mentre il gommone correva sull’acqua a settanta chilometri orari. “Un gommone a quella velocità è come una macchina che va a trecento. E tu devi tenere in mano un neonato. Per me non era un bambolotto: era un bambino vero. Il cuore ti salta in gola”. Ha dovuto affrontare anche addestramenti pensati per le situazioni più difficili, compreso il recupero di chi non ce l’ha fatta. “Sono procedure che ti segnano — non è più un’esercitazione, sai che stai parlando di esseri umani”.

La paura non lo ha mai abbandonato. “Ho pianto molto, ho avuto incubi. Ogni giorno temevo che la missione fallisse, che potessero morire delle persone davanti a noi, che morissero dei bambini”.

Poi c’è stata la tensione con la guardia costiera libica. “Quando c’ero io a bordo ci hanno semplicemente puntato le armi. È stato un faccia a faccia di paura, ma non pensavo a me: pensavo ai ragazzi che stavamo tirando su dall’acqua. L’urgenza era salvarli”.

Pochi giorni prima dell’intervista, però, quella scena si è ripetuta in forma ancora più drammatica: “Questa volta hanno fatto fuoco. Per venti minuti la guardia costiera libica ha sparato con le mitragliatrici contro una nave umanitaria, e lo ha fatto su imbarcazioni donate dall’Italia. È qualcosa che sta fuori dalla grazia di Dio, al di fuori di ogni diritto internazionale e di ogni principio marittimo e umanitario”. La sua voce si fa dura: “Bisogna vedere se ci deve scappare il morto perché l’Unione Europea e l’Italia facciano qualcosa. E la cosa più drammatica è che tutto questo ha avuto pochissimo spazio – o nessuno – sui mezzi di informazione”.

Nostra signora delle lacrime, il brano che racconta la speranza

Tra le cose che Kento ha portato a casa dall’Ocean Viking c’è anche un brano rap scritto in navigazione: Nostra Signora delle Lacrime. Una canzone che affonda le radici nei giorni della partenza, a Siracusa, e che è diventata un modo per dare forma a ciò che aveva visto e sentito durante la missione di salvataggio nel Mediterraneo.

“Il titolo nasce dal fatto che nella sala riunioni dell’Ocean Viking c’è un disegno fatto da un pescatore di Siracusa”, racconta. “Non l’ho mai detto a nessuno. È una madonnina, disegnata a matita, con scritto sotto: Proteggi Ortigia”. Quel segno lo aveva colpito subito, come un augurio lasciato lì a protezione di chi partiva. Poi, andando verso il porto, un altro dettaglio: un cartello che indicava il Santuario della Madonna delle Lacrime di Siracusa, la grande chiesa di Siracusa costruita attorno a un’immagine miracolosa.

Due immagini semplici, incontrate quasi per caso, che hanno finito per diventare il cuore di una canzone. “Io non sono credente”, sottolinea Kento, “ma quella figura materna per me rappresentava la speranza, il prendersi cura. Il brano è stato percepito come una preghiera laica, e la cosa che mi ha colpito è che è stato apprezzato anche da chi crede. Significa che quel messaggio arriva comunque, al di là delle appartenenze”.

Nostra Signora delle Lacrime raccoglie la tensione di quei giorni, la paura, la solidarietà e il desiderio di protezione. Un canto nato dentro il dolore, che si apre a un bisogno universale di speranza.

Il concerto più incredibile della mia vita

La musica, sull’Ocean Viking, ha trovato la sua forma più autentica in un momento che nessuno aveva previsto. “Fin dall’inizio – con tutte le sue storture e i suoi difetti – il rap è stato la voce di chi non ha voce”, dice Kento. “E in quel caso lo è stato letteralmente”.

A bordo c’erano quarantotto ragazzi salvati nel Mediterraneo, quasi tutti adolescenti gambiani. Molti di loro facevano rap o reggae. Quando hanno scoperto che Kento era un rapper, il concerto si è trasformato in una jam session improvvisata. “Il microfono passava di mano in mano: ognuno aggiungeva la sua voce, la sua storia, i suoi versi. Quelle scene che si vedono nel videoclip ufficiale di Nostra Signora delle Lacrime non sono ricostruite: sono accadute davvero. Abbiamo cantato insieme, rap e reggae, ed è stato il concerto più incredibile della mia vita e le loro voci le abbiamo inserite anche nel brano”.

La fortuna, racconta, è stata anche nella lingua. “Parlavano inglese, quindi non avevamo barriere linguistiche. Se avessero parlato arabo avrei avuto bisogno di un traduttore, sarebbe stato tutto diverso. Invece è stato naturale, spontaneo. Un momento fantastico, che poteva anche non accadere se la missione fosse andata diversamente. Ma è successo, la missione è andata bene e quel momento è stato unico.

L’arte come corridoio di umanità

L’idea era nata semplice: un concerto a bordo, qualche parola, una canzone. Ma l’esperienza sull’Ocean Viking ha mostrato che la musica può essere molto di più di un momento di intrattenimento: può diventare strumento di incontro, di cura, di dignità.

“Noi parliamo giustamente di corridoi umanitari nel Mediterraneo”, spiega Kento. “Ma ciò che ci rende umani è anche la cultura, l’arte e la musica. Per questo credo sarebbe importante creare dei corridoi artistici e culturali all’interno dei corridoi umanitari”.

La sua missione lo ha reso il primo artista musicale a partecipare in prima persona a un’operazione di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo. “Spero di non essere l’ultimo”, aggiunge. “Accanto ai corridoi sacrosanti che portano cibo, coperte, medicine e materiali di prima sopravvivenza, dovremmo portare anche la cultura e la musica. Perché sono anch’esse ciò che ci rende umani”.

Carceri minorili: la scrittura come libertà

Da quindici anni Kento porta i suoi laboratori rap negli istituti penali minorili in Italia e nei reparti per giovani adulti fino a 24 anni. Entrare lì significa incontrare ragazzi che spesso non hanno mai scritto un pensiero su un foglio. “Dare una penna in mano a un ragazzo significa dargli una chiave verso l’interno”, spiega. È così che parole semplici, scritte per la prima volta, diventano rivelazione: oggi mi sento triste, oggi mi manca mia madre, oggi penso a cosa farò quando esco di qui.

Per loro il rap è immediatamente familiare: lo riconoscono come linguaggio proprio, e questo abbassa barriere e diffidenze. Anche chi sembra avere la corazza più dura finisce per lasciar cadere il peso e tirare fuori malinconia, rabbia, desiderio.

Ma non è un percorso senza dolore. “Un ragazzo, in un carcere in cui lavoravo, è morto in maniera tragica”, ricorda. “L’ho saputo appena prima di salire sul palco, avevo finito il sound check ed ero nei camerini. Ho pensato di non farlo, quel concerto. Mi avrebbero giustificato. Ma sono salito lo stesso, e l’ho dedicato a lui, ho fatto delle canzoni che parlano di carcere, di Palestina, dell’Ocean Viking.

“Se tu corri il rischio di dimenticarti perché fai determinate cose, purtroppo arrivano delle notizie tremende che in maniera terribile, ma a volte necessaria, ti riportano coi piedi per terra. In momenti così capisci davvero perché fai quello che fai”.

Da questa esperienza sono nati diversi progetti: il libro Barre – Rap, sogni e segreti in un carcere minorile (Minimum Fax, 2021), alcuni episodi del podcast Illegale – in cui Kento esplora i lati nascosti e le culture alternative delle città – e ora lo spettacolo teatrale La cella di fronte.

Il debutto teatrale di Kento sarà in anteprima il 4 novembre 2025 al Teatro Oscar di Milano e il 5 novembre 2025 al Teatro de’ Servi di Roma, per poi partire con un tour nel 2026. Scritto interamente da Kento, con musiche sue – in parte inedite – lo spettacolo unirà racconto, performance musicale e una forte componente di interazione col pubblico.

L’intento è chiaro: “Spero che il pubblico si porti a casa l’abbattimento del muro tra “il noi e il loro”, dice. “Che capisca che le carceri fanno parte della città, che i detenuti fanno parte della comunità. E che molti di noi sono stati in una prigione: non per forza tra le sbarre, ma in un lavoro, in una famiglia, in gabbie mentali costruite da soli”.

Sul palco Kento sarà da solo, senza rete. “Ci saranno momenti a braccio, dialogo con il pubblico – ma parlo solo di cose che ho vissuto. Perché una cosa che ci dicevano da piccoli, e che non dovremmo mai dimenticare, è: non parlare di quello che non sai”.

Kento e il no al Ponte sullo Stretto di Messina

Parlare con Kento significa inevitabilmente parlare di Sud e di Calabria. Non come cornice nostalgica, ma come radice e ferita aperta. “Sono di Reggio Calabria – dice – posso stare a Roma per cinquant’anni, ma le mie radici sono qui. È qui che combatto le mie battaglie, con la musica e con le parole”.

Tra queste battaglie, una delle più urgenti è quella contro il Ponte sullo Stretto di Messina.
“In questi giorni che sono in Calabria ho partecipato a iniziative di supporto al movimento No Ponte. Stamattina ero al presidio delle barche: decine di piccole imbarcazioni unite contro il progetto. L’altra sera ho fatto un concerto rap di sostegno al centro sociale Cartella di Reggio Calabria, che ha subito un attentato incendiario. Sono gesti piccoli, ma servono a far prendere coscienza”.

La sua posizione è netta: “Il Ponte è un’illusione, una distrazione. In Calabria e in Sicilia mancano i treni, gli ospedali, il lavoro. Parlare di ponte senza pensare a questo significa non conoscere il Sud, o peggio, volerlo lasciare in una condizione di dipendenza”.

Il discorso si allarga: non si tratta solo di cemento, ma di identità. “Quel paesaggio millenario del Sud, quel mare che per secoli è stato luogo di comunicazione, quella cultura… sono tutto ciò che rischiamo di sacrificare. Io fino a poco tempo fa ero ottimista, oggi lo sono meno. Speriamo che prevalga il buon senso, e intanto lottiamo con gli strumenti che abbiamo: la cultura, la musica, la parola”.

Anche nei suoi testi questo impegno ritorna. Nel suo brano All’Orizzonte, ad esempio, canta il legame con la sua terra e il bisogno di cercare il mare e la dignità del Sud. “Io cerco, nel mio piccolo, di lottare con la musica”, ripete. E in quel “piccolo” c’è tutta la forza di un artista che non si limita a descrivere, ma scende in strada, sale su una barca, si mette accanto a chi difende il proprio territorio.

Sostenere con la musica, immaginare l’impossibile

L’impegno artistico e civile di Kento non è mai solo presenza, ma anche visione. “Per me oggi visione significa tenere sempre presente che questa non è l’unica società possibile. Che questi non sono gli unici rapporti economici, gli unici rapporti di forza possibili”, spiega.

La visione è immaginare un mondo diverso: “Un mondo dove non esiste il conflitto tra capitale e lavoro, un mondo dove non esistono – o almeno non in maniera così estrema e terribile – sfruttati e sfruttatori. Un mondo dove possiamo guardare all’altro come a un essere umano, un fratello, una sorella”.

Sa bene che è un’utopia, eppure insiste: “Forse è irrealizzabile. Ma senza sognare quello che è irrealizzabile, non riusciremo mai a cambiare neanche una piccola parte del reale”.

In questo senso, il suo percorso artistico è anche una forma di sostegno: salire su una nave come l’Ocean Viking, entrare negli istituti penali minorili, cantare con i ragazzi soccorsi, lottare contro il Ponte sullo Stretto di Messina. Ogni gesto ha la stessa radice: sostenere chi non ha voce, chi viene lasciato indietro, chi rischia di essere dimenticato. Non per eroismo, ma per necessità.
Ed il suo gesto è sempre lo stesso: usare cultura e parola come strumenti di resistenza.

Perché in fondo la domanda rimane una sola, ed è quella che Kento canta in uno dei suoi versi più intensi: “Come è possibile credere alla bugia che, se questo mare è nostro, questa gente non lo sia?”

 

 

 

Nota finale:
Tra la nostra intervista e l’uscita di questo articolo, Kento ha aggiunto un nuovo tassello al suo percorso: il libro Il nonno, il rapper e altri ribelli. Storie al confine tra giustizia e legalità (Piemme, 2025). Un’opera che raccoglie racconti e testimonianze di resistenza civile, in continuità con quel filo che attraversa tutta la sua musica e la sua scrittura: dare voce a chi non ne ha e costruire alternative possibili.

 

 

 

 

I diritti delle fotografie e delle immagini presenti in questo articolo appartengono ai rispettivi autori e detentori. Eventuali utilizzi sono da intendersi a solo scopo di documentazione e informazione.

Tag

  • Francesco Kento Carlo
  • Kento Ocean Viking
  • Kento rapper
  • Nostra Signora delle Lacrime
  • ocean viking
  • SOS Méditerranée

Potrebbe interessarti: