“Un posto al sole….” nella commissione antimafia

Con l’elezione di Rosy Bindi  (62 anni, ex presidente del Partito Democratico) si è conclusa la lunga e penosa telenovela per la presidenza della Commissione antimafia grazie ai voti del PD, di Scelta Civica e di SEL. La Bindi ha vinto il  ballottaggio contro Luigi Gaetti del M5S, eletto poi vicepresidente insieme a Claudio Fava di SEL.

Se queste però sono le premesse forse sarebbe stato meglio non farla, troppe manovre, troppi intrighi e giochi di partito su questa commissione, a partire da certi nomi, c’è da chiedersi abbiamo realmente bisogno di un’ Antimafia così? Lo scenario del tutti contro tutti, offerto dai partiti di maggioranza per imporre un loro presidente, si svolto attraverso veti incrociati, minacce di ritiri e mancanza di numero legale. Ma la cosa ancor più triste e che dopo tutta questa bagarre ci si aspettava una composizione all’altezza di un cosi importante ruolo, ma tanto per cambiare si è deciso invece di nominare una serie di personaggi, di apparato e discutibili, che seppur non condannati si portano dietro più di qualche ombra. L’elenco è bipartisan e va dal senatore Claudio Fazzone, del Pdl che qualche anno fa ha fatto di tutto per non far sciogliere il Comune di Fondi inquinato da infiltrazioni di ‘ndrangheta e camorra, a Vincenza Bruno Bossio del Pd, il cui marito Nicola Adamo, vicepresidente della Regione Calabria, è indagato per corruzione. Il senatore del Pdl inoltre è stato anche autista, non civile, ma da dipendente del Viminale, di Nicola Mancino quando nell’estate del 1992 era ministro degli Interni ed ai tempi della famosa trattativa fra Stato e mafia nella quale è implicato come imputato lo stesso Mancino. Nell’elenco troviamo anche Giovanni Bilardi, ex consigliere regionale a Catanzaro, “Lista Scopelliti”, sott’indagine per peculato, Donato Bruno che nel 2002 aveva manifestato la sua idea sul 41 bis: “Lo abrogherei, è solo una tortura” e Carlo Sarro, avvocato di Nicola Cosentino indagato per concorso esterno in associazione camorristica. Anche la neo presidente Rosy Bindi sembra un pesce fuor d’acqua, era infatti capolista in Calabria ma  non ha dedicato un solo incontro o intervento “alla lotta alla ‘ ndrangheta” ammettendo anche candidamente, “di non sapere nulla di mafia”

Analizzando un po’ di storia sulla commissione antimafia è innegabile che per molti anni le istituzioni italiane hanno ignorato, sottovalutato o negato l’esistenza di un fenomeno mafioso differente dalla comune criminalità organizzata. Dal punto di vista legislativo la prima legge che introduce un reato specifico risale solo al 1982, quando venne introdotto nel codice penale (all’art. 416 bis) il reato di “associazione mafiosa”. La legge, Rognoni-La Torre dai nomi dei promotori, arrivò dopo l’uccisione del generale Dalla Chiesa, avvenuta il 3 settembre dello stesso anno.

L’idea di istituire una commissione parlamentare per occuparsi dei problemi di “ordine pubblico” in Sicilia, però, era molto più antica, e aveva già portato a corpose iniziative parlamentari. La prima proposta risale al settembre del 1948, pochi mesi prima che l’allora ministro dell’Interno Mario Scelba pronunciasse, un famoso intervento al Senato, in cui disse: si parla della mafia condita in tutte le salse ma, onorevoli senatori, mi pare che si esageri in questo” 25 giugno 1949. Un’altra proposta, presentata nel 1958 ma discussa solo nel 1961, venne definita dal senatore della DC Mario Zotta “inutile, antigiuridica e inidonea”.

Ma su pressione della stessa giunta regionale siciliana si arrivò all’istituzione di una commissione parlamentare che indagasse sulle cause economiche e sociali della mafia, in modo da cercare di intervenire con altri strumenti che non fossero quelli della sola repressione poliziesca. Questa venne approvata con una legge del dicembre del 1962 e rimase in carica per tredici anni, producendo relazioni che parlavano per la prima volta di collegamenti tra mafia e politica locale siciliana e, ai primi degli anni Settanta, di una diffusione dell’organizzazione anche fuori dalla Sicilia. Nel 1976 la prima Commissione d’inchiesta sulla mafia terminò i suoi lavori: pubblicò 42 volumi di atti ma, sotto la presidenza del democristiano Luigi Carraro, concluse che il fenomeno mafioso era limitato e da non sopravvalutare.

Anche se per il reato bisognerà aspettare il 1982, durante gli anni della prima Commissione (nel 1965) era stata approvata una prima legge che conteneva nello specifico – come diceva il titolo – “Disposizioni contro la mafia”. È una legge importante per la storia dell’antimafia italiana, ma che ebbe risultati molto limitati perché fondata su un generico “sospetto” di appartenenza alle associazioni mafiose e perché prevedeva misure facilmente aggirabili (alla fine degli anni Sessanta lo fece per esempio Totò Riina).

Tra il 1982 e il 1987 fu attiva una seconda commissione antimafia, ma questa volta senza poteri d’inchiesta: doveva solo verificare l’attuazione della legge Rognoni-La Torre. Tornò ad avere poteri d’inchiesta con le legislature successive, a partire dal 1988 (i presidenti furono Gerardo Chiaromonte, 1988-1992, Luciano Violante, 1992-1994, e Tiziana Parenti, 1994-1996): dal 1996 a oggi la legge che la regola è rimasta la stessa.

In tutta questa confusione le mafie italiane ringraziano e continuano a gestire i loro loschi traffici, mimetizzandosi nella società e mutando sempre più la loro fisionomia.

antimafiaLa mafia non è più coppola e lupara è un sistema tentacolare presente i tutti  settori della società e la sua linfa migliore e la sottovalutazione e l’indifferenza. I vecchi schemi sono stati rivoluzionati con effetto camaleontico per adattarsi alle diverse tipologie territoriali, la terra dei fuochi per esempio è solo il primo ritrovamento di una serie di avvelenamenti che da nord al centro e al sud ammorberanno la nostra e la vita dei nostri figli. La politica italiana non può quindi permettersi di “giocare” su questi temi, chi siede in questa commissione ha ancor più sulle spalle l’eredità di chi ha fatto della lotta alle mafie un scelta di vita, portata all’estremo sacrifico. Perché nessuno dimentichi che l’incarico di lotta alla criminalità non è l’ennesima poltrona da spartirsi per i partiti ma è un obbligo morale da onorare con il massimo impegno e rispetto.


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