Sylvester Stallone interpreterà Gregory Scarpa. I big del cinema tornano a immedesimarsi con i big del crimine
C’è stata un’altra “sporca guerra” combattuta dall’FBI nella seconda metà del ‘900, oltre a quella contro il comunismo: quella contro Il Ku Klux Klan. Uno degli episodi cruciali della campagna degli uomini del signor Hoover contro il razzismo “bianco, anglosassone e protestante” nel sud degli USA, è il periodo di disordini nello stato del Mississippi dopo il rapimento e l’uccisione da parte del Klan di tre attivisti per i diritti civili nel giugno 1964. Nota come “Mississippi Burning”, la vicenda è raccontata con grande efficacia nel film omonimo di Alan Parker del 1988, con Gene Hackman e Willem Dafoe. A breve, Sylvester Stallone inizierà le riprese di un altro film dedicato allo stesso tema. Stavolta però, raccontato dal punto di vista del mafioso Gregory Scarpa, interpretato da Stallone. Scarpa è realmente esistito. Boss dei Colombo, una delle cinque famiglie criminali padrone di New York dopo la guerra, incastrato per più di 50 omicidi, per non finire in carcere accetta di diventare informatore dei federali. Inviato nel Mississippi contribuirà, ovviamente con metodi al di fuori della legalità, a fare luce sul caso dei tre ragazzi scomparsi e a smantellare il Klan nella contea di Neshoba. Una volta libero, tornerà al crimine e morirà di aids nel 1994.
Stallone è solo l’ultimo di una lunga serie di divi che si misurano con i capi della malavita. E non stiamo parlando degli infiniti gangster immaginari passati sullo schermo ma di quelli reali, inseriti con nome e cognome nel proprio contesto e raccontati, più o meno fedelmente, come personaggi storici.
L’esempio più recente è “Gangster squad”, diretto da Ruben Fleischer nel 2013. Sean Penn è un torvo e grottesco Mickey Cohen, il boss di Los Angeles citato più volte nei romanzi di James Ellroy. E’ il primo “gangster film” ad essere realizzato in digitale.
Bandito di tutt’altro tipo è John Dillinger. Beffardo, anarchico e particolarmente sensibile al gentil sesso, convinto di essere una sorta di Robin Hood destinato a fare giustizia nell’America della Grande Depressione, Dillinger è stato interpretato nel 2009 da Johnny Depp in “Nemico pubblico” di Michael Mann, nel 1973 da Warren Oates e nel 1945 da Lawrence Tierney. Per smantellare la sua banda, i federali inizieranno a ricorrere a tecniche di interrogatorio più “persuasive” e a negare le cure ai feriti che non si decidono a parlare. Quella contro il gangsterismo è diventata una guerra.
Non a caso negli anni ’60, la carica sovversiva tipica di alcune figure criminali viene enfatizzata dalla New Hollywood. Nel 1967, Faye Dunaway e Warren Beatty, nei panni di Bonnie Parker e Clyde Barrow in “Gangster Story” di Arthur Penn, prima che due rapinatori sono due contestatori poco più che ventenni che combattono le regole della società degli “adulti”. Nella celebre sequenza finale non vengono uccisi, vengono abbattuti.
Ormai esperto del tema, nel 1991 Beatty, diretto da Barry Levinson, porta sullo schermo un altro “personaggio storico”: Benjamin “Bugsy” Siegel, l’”inventore” di Las Vegas. Esponente di primo piano del “sindacato del crimine”, Bugsy infatti, nel 1937 ha l’idea di trasformare uno sperduto villaggio del Nevada in un porto franco per gioco d’azzardo, prostituzione e alcolici. Un anno dopo essere stato l’integerrimo “Dick Tracy”, Warren Beatty sa costruire perfettamente il personaggio di un assassino narcisista e megalomane. Fermamente convinto di essere un benefattore e un patriota, Bugsy si proporrà anche come volontario ai servizi segreti per recarsi a Roma e uccidere Benito Mussolini.
Sempre nel 1991, altri due “buoni” dello schermo, Dustin Hoffman e Bruce Willis, indossano panni malavitosi. “Billy Bathgate – A scuola di gangster” di Robert Benton descrive le faide interne alla malavita ebraica della New York degli anni ruggenti. Il giovane protagonista Loren Dean, aspirante criminale, è testimone della guerra, realmente accaduta, tra la gang di Dutch Schultz (Hoffman) e quella di Bo Weinberg (Willis).
Come sempre, in Italia le cose si complicano. Il crimine chiama in causa la politica, e viceversa. Negli anni ’60, l’eco della guerra civile non si è ancora spenta. Nel ’62 Florestano Vancini racconta le gesta de “La banda Casaroli”, che terrorizza le banche dell’Emilia Romagna nel dopoguerra. La banda porta il nome del suo capo, l’ex-repubblichino Paolo Casaroli, interpretato da Renato Salvatori. Nel ’68 la par condicio è assicurata da “Banditi a Milano” di Carlo Lizzani. Gian Maria Volontè è Pietro Cavallero, rapinatore fan di Lenin, braccato dal giovane vicecommissario Tomas Milian, una volta tanto poliziotto elegantissimo e ben pettinato.
Nel 1973, per Francesco Rosi, Volontè è anche Lucky Luciano, il boss dei boss di New York rispedito in Italia come indesiderabile nel 1946 e ritenuto elemento di collegamento tra l’America e la politica italiana. Il suo braccio destro Vito Genovese è il primo vice-sindaco di Napoli liberata dagli Alleati. Con le vicende di Luciano e Genovese si intrecciano strettamente quelle di Joe Valachi, il primo grande pentito della mafia americana, interpretato nel 1972 da Charles Bronson in “Joe Valachi: i segreti di cosa nostra” di Terence Young. Nel cast all stars, nel ruolo di Lucky Luciano, troviamo un misuratissimo Angelo Infanti, non ancora convertito alla commedia da Carlo Verdone.
Nel 2005 Michele Placido è impeccabile e misurato nel mantenere le distanze dalla “sua” Banda della Magliana, ricostruita con falsi nomi e giocando abilmente con tutti gli stilemi del poliziottesco anni ’70. Perde un po’ in rigore sei anni dopo, con “Vallanzasca – Gli angeli del male”. Il regista proprio non riesce a non cedere al carisma perverso cucito, a torto o a ragione, addosso al bandito della Comasina, interpretato da un Kim Rossi Stuart spesso sopra le righe quanto il suo personaggio, tra accenti pop e tentazioni “videoclippare”.
Naturalmente, l’unico, vero monumento alla commistione tra cinema e gangsterismo non può essere che lui: Al Capone. Nel 1987, con “Gli Intoccabili” di Brian De Palma, Robert De Niro trasforma lo sfregiato di Chicago in una delle icone del secolo. Inutile citare qui le sue battute più famose. L’interpretazione rende alla perfezione la natura del personaggio: brutale (ovviamente), egocentrico, grossolano, ansioso di apparire come un mecenate, ma soprattutto intimamente frustrato per non essere riuscito a ottenere l’ambito riscatto sociale neppure dal crimine. Capone infatti è stato considerato dagli altri suoi “colleghi” come un “paria”, inaffidabile e imprevedibile. Nella geografia criminale dell’epoca, intorno alla sua Chicago è posto un cordone sanitario che la isola dalle altre grandi centrali del gangsterismo.
Portato sullo schermo innumerevoli volte, Al “lo sfregiato” è alla base di almeno altri due capolavori, intitolati entrambi col suo soprannome: “Scarface”. Nel 1931, Howard Hawks ne cambia il nome in Tony Camonte (Capone è appena finito dentro ma i suoi soci sono ancora in circolazione) e realizza un noir ancora oggi sorprendente per modernità espressiva. Il protagonista è Paul Muni, che dà vita ad un personaggio tragico e memorabile. Da Tony Camonte a Tony Montana. Nel 1983 Brian De Palma trasforma il personaggio da immigrato campano di Brooklyn a profugo cubano a Miami, con il volto e la rabbia di Al Pacino. Il resto è Storia.
Faye Dunaway e Warren Beatty in Bonnie & Clyde Gangster Story
Charles Bronson è Joe Valachi
Kim Rossi Stuart è Renato Vallanzasca
Lino Ventura è Vito Genovese – Angelo Infanti è Lucky Luciano
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