Mezzo secolo di carriera di un re del cinema “scritto”. Woody Allen divide più di tutti, o si ama o si detesta
Nelle sale italiane dal 4 dicembre, con “Magic in the Moonlight”, con Emma Stone e Colin Firth, Woody Allen torna alla commedia sofisticata dopo il dramma serrato di “Blue Jasmine”. L’ambientazione francese e le allusioni magiche sembrano rimandare a “Midnight in Paris”, il più grande successo commerciale del regista, che solo tre anni fa ha sbancato i botteghini di tutto il mondo e vinto l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale.
Tra la seconda metà degli anni ’90 e la prima degli anni 2000 i suoi film appaiono senza meta, alla deriva, commedie senza la minima traccia del mordente degli antichi fasti. Poi nel 2005 improvvisamente “Match point”, thriller teso, matematico e rigoroso ambientato a Londra, gli riconsegna la lucidità autoriale ed una seconda giovinezza artistica, anche grazie all’attrice che sarà la sua interprete-simbolo del decennio: Scarlett Johansson.
“Mi manca la pazienza per essere un grande artista: preferisco stare a casa a guardare la partita”
Umorista, commediografo, autore tv, clarinettista jazz (solo quello in stile New Orleans), cabarettista suo malgrado, attore, autore comico e drammatico, Woody continua a non prendersi ostentatamente sul serio, a minimizzare il ruolo della regia in un film rispetto alla recitazione e al copione. Spaziando attraverso vari generi, il suo cinema privilegia sempre la parola scritta rispetto al momento filmico, la macchina da scrivere dello sceneggiatore (fin da ragazzo usa una Olympia portatile di fabbricazione tedesca) al megafono del regista. A 79 anni appena compiuti, la sua natura è ancora quella dello “stand up comedian”, del cabarettista che parla al pubblico e con il pubblico nei locali di Broadway. Un rapporto diretto con lo spettatore che, per noi italiani, non sarebbe lo stesso senza l’inconfondibile voce di Oreste Lionello.
Comico o serio, il cinema alleniano è fatto più di linguaggio che di situazioni. Prevale ciò che si vuole comunicare, rispetto a come farlo. E, come dice di lui il suo amico Martin Scorsese: “Non tutti hanno così tanto da dire sulla vita”.
“Da quegli scalini tifavamo contro i nazisti”
Woody Allen, al secolo Allan Stewart Konisberg, nasce a Brooklyn il 1° dicembre 1935, in una numerosa e rumorosa famiglia ebraica del Midwood. I loro genitori sono piuttosto severi ma lui e la sorella minore Letty, sua futura produttrice, vivono comunque un’infanzia felice, immersi in una folla perenne di zii e cugini (un tòpos narrativo tipico di Allen: la famiglia allargata). E’ sempre in strada a giocare e a divertirsi. Al liceo inizia a ideare gag e battute e ad inviarle ai giornali. In breve diventa un autore affermato che scrive per conto di molti comici. I suoi agenti Jack Rollins e Charles Joffe, da cui non si separerà mai più, gli trovano un nome d’arte e lo spingono di forza sul palco. In breve tempo, fuori dai locali dove si esibisce si formano file interminabili. Dopo New York, Woody Allen diventa un fenomeno televisivo e conquista l’America. L’ingresso nel mondo del cinema è nel 1965, con la sceneggiatura di “Ciao Pussycat”. Woody però vede il proprio script stravolto dai produttori. Giura che non farà mai più un film senza averne il controllo totale.
“Se volete il mio parere, diventerete i più grandi piegatori di palloncini di tutti i tempi”
La sua carriera omaggia lo slapstick forsennato dei fratelli Marx, il cinema indipendente di Cassavetes (“Broadway Danny Rose”, “Blue Jasmine”), l’introspezione gelida di Bergman (“Interiors”, “Settembre”, “Un’altra donna”). Come attore dà corpo all’invettiva chapliniana contro il maccartismo con “Il prestanome” di Martin Ritt e “duetta” con un Humphrey Bogart immaginario in “Provaci ancora, Sam” tratto da una sua commedia teatrale e diretto da Herbert Ross.
Il suo bersaglio preferito non è la politica, piuttosto l’onnipotenza dei mass media. “Prendi i soldi e scappa” è uno pseudo-documentario sui miti e i mostri creati dalla tv (30 anni prima di “Assassini nati”). “Il dittatore dello stato libero di Bananas” spinge il discorso più in là, sulla capacità dei media di stabilizzare o destabilizzare interi sistemi politici (di lì a poco scoppierà lo scandalo Watergate). “Zelig” è una sorta di “autobiografia di una nazione” vista attraverso i cinegiornali. Con “Radio Days” racconta l’America delle grandi famiglie (come la sua) raccolte intorno alla radio per dimenticare la Depressione e la guerra. Probabilmente esagera con “Stardust memories” (1980), il suo primo fiasco al botteghino, in cui affronta impietosamente i rapporti morbosi che possono instaurarsi tra le star e il pubblico. Woody interpreta un regista di successo che subisce un attentato da un fan. Alla fine di quell’anno verrà ucciso John Lennon.
Il suo cinema sa essere anche cupo e disperato. I protagonisti di “Crimini e misfatti”, “Match Point”, “Sogni e delitti”, si sono arresi al “silenzio di Dio”, non hanno più speranze.
“L’ultimo anno di matrimonio non mi comportavo molto bene con mia moglie: tendevo a metterla sotto un piedistallo”
Tendenzialmente (non sempre), è ai personaggi femminili che Allen affida il duro compito di portare salutare e positivo caos nel crudele e abietto mondo maschile. L’ex-moglie Louise Lasser lo spalleggia egregiamente nei primi film. La svolta arriva dall’incontro con Diane Keaton. Nel 1977, mentre le sue quotazioni di comico sono alle stelle, Woody rischia il tutto per tutto con una commedia romantica che lascia i produttori un po’ perplessi. “Io e Annie” ridisegna i caratteri della commedia sofisticata, lo consacra come autore “serio”, incassa una fortuna e vince 4 Oscar, stracciando “Guerre stellari”. Alla premiazione Woody non c’è. Quella sera ha già preso l’impegno di suonare in un locale. Seguono il drammatico e sorprendente “Interiors” e il vero film-simbolo di Woody, “Manhattan”. Il legame con Diane Keaton diventa una profonda complicità artistica che dura otto film e si svolge sempre su un piano paritetico.
Ma è l’incontro con la sua unica vera musa, Mia Farrow, che nel bene e nel male avrà un peso determinante su vita e opere di Allen, a renderlo un autore capace di assumere un punto di vista interamente femminile. Il loro massimo risultato insieme è probabilmente “Hannah e le sue sorelle” (1986), che fa vincere un Oscar a Dianne Wiest (ne vincerà un altro per “Pallottole su Broadway”) e uno a Michael Caine, in un ruolo pensato originariamente per Jack Nicholson. La rottura drammatica con Mia si consuma sul set di “Mariti e mogli”, in cui interpretano una coppia sull’orlo del divorzio.
“Il risultato che inseguo io è far un grande film. Sono decenni che non ci riesco”
E’ probabilmente l’autore più divisivo in assoluto, tra i grandi del cinema. O si ama o si detesta. Dipende da come si reagisce a un tipo bizzarro e nervoso che ironizza sui temi più angoscianti.
Da parte sua, in mezzo secolo, Woody non ha mai cambiato approccio al cinema: essere un regista assolutamente non invasivo, scegliere con la massima cura gli attori per poi affidarsi al loro istinto, girare in modo semplice, chiaro ed essenziale, lasciarsi alle spalle prima possibile “l’inferno” della sala di montaggio. E una volta finito, passare ad altro. Un cinema inteso molto più in termini europei che americani. E non deve essere un caso se i suoi film hanno generalmente più fortuna nel vecchio continente che in patria. Nell’ultimo decennio ne ha girati otto in Europa (quattro a Londra, due in Francia, uno a Roma, uno a Barcellona) e solo due in America. “Ho sposato la teoria della quantità – dice nel documentario del 2013 “Woody” di Robert B. Weide – Penso che se faccio un film dietro l’altro, ogni tanto uno di loro verrà bene. Ed è certamente così”. La “bulimia” artistica di un autore che, dall’adolescenza, non ha mai rallentato la sua frenetica attività, senza rinunciare a interrogarsi, sotto quelle battute fulminanti, su temi alti o altissimi.