Pistoia-Triestino-De Vito portano in scena “Scacco Pazzo” alla Sala Umberto. Uno spettacolo straziante e poetico sulla ricerca disperata della felicità
E’ una guerra straziante quella che “Scacco Pazzo” porta in scena. Una guerra fatta senza nemici e senza vincitori. Solo di sconfitti. Nicola Pistoia e Paolo Triestino, accompagnati da Elisabetta De Vito danno vita a uno spettacolo claustrofobico, che pesta nelle viscere. Gli spettatori lasciano la Sala Umberto disorientati e angosciati, con la consapevolezza che “Scacco Pazzo” è entrato in profondità e che la sensazione di smarrimento difficilmente se ne andrà.
“Una scelta diversa dalle solite nostre”, ha dichiarato Triestino ai microfoni di OpenMag. E, infatti, “Scacco Pazzo” si scosta dalla produzione, pur sempre amara e impegnata, del trio, mirando molto più al tragico. La risata non è mai liberatoria o aperta. Una situazione che inizialmente viene accolta con un sorriso e uno sbuffo si protrae così a lungo da sfociare nell’umiliazione e nell’imbarazzo. Il sorriso diventa disagio e inquietudine, rendendo le scene ancora più destabilizzanti e angoscianti.
Antonio (Triestino), un uomo di cinquant’anni, è convinto di essere un bambino, a seguito di un incidente stradale. Di lui si prende cura il fratello, Valerio (Pistoia), anche per via dei sensi di colpa che lo affligono. Spesso l’unico modo per Valerio di calmare le crisi di Antonio è travestirsi da madre e padre, indossando parrucche e abiti logori, ricreando una famiglia ormai morta. Qualcosa sembra cambiare nel momento in cui Marianna (De Vito), fidanzata di Valerio, si trasferisce con loro. Che sia ancora possibile essere felici?
La ricerca di una felicità perduta è uno dei temi principali di “Scacco Pazzo”. L’ambigua follia di Antonio mira, infatti, a ristabilire un’età mitica in cui le cose andavano bene, in risposta al tragico incidente che uccise la donna che amava proprio il giorno del matrimonio. Ma la ricerca assume i toni disperati e sanguinari di una guerra: non a caso il gioco infantile che ossessiona Antonio sono i soldatini, il suo continuo disporli come vedette e sentinelle.
L’altro perno complementare su cui ruota “Scacco Pazzo” è il passato. Nella sua monomaniacalità, Antonio costringe il fratello a una patetica pantomima passatista. Ma lo stesso Valerio è incapace di andare avanti. La tragedia di “Scacco Pazzo” è questa: un passato felice diventa ora una prigione, la cui unica fuga è una pazzia ambigua. Solo i discorsi surrealistici di Antonio, con le risate dai mille colori, offrono momentanei attimi di respiro, andandosi a scontrare, esplodendo, contro le mura smorte della casa e della realtà.
Una scenografia cupa e atemporale sottolinea, infatti, quest’aria grave e claustrofobica in cui sono costretti i personaggi. L’intero spettacolo, infatti, si svolge all’interno dell’angusto salotto della casa dei due fratelli. Il tavolo scarno e grigio, le altissime pareti smorte tagliano lo sguardo allo spettatore, che non ha vie di fuga ed è imprigionato sulla scena, resa ancora più cruda da una luce impietosa che illumina l’azione. Quella di “Scacco Pazzo” è una tragedia inesorabile.
Il ritmo di “Scacco Pazzo” procede per ciclici rilasci di tensione, come valvole di sfogo. I confronti reiterati fra i tre personaggi spesso si fermano un attimo prima di raggiungere il climax massimo. La sensazione è quella di una tragedia che sta per avvenire e che attraversa l’intera azione, e che è soltanto rimandata. Inoltre, la mancanza di uno sfogo vero e proprio, impedisce ogni liberazione o risoluzione. Si procede senza mai muoversi realmente. Se le prove attoriali sono di altissimo livello, non è da meno la scrittura di Vittorio Franceschi. Giunto alla sua terza rielaborazione, dopo lo spettacolo teatrale del 1991 e il film del 2003, “Scacco Pazzo” non ha perso nulla nella sua forza viscerale. Intriso profondamente del teatro e della letteratura novecentesca, da Pirandello a Beckett, la sua riflessione sulla follia e l’inquietudine risulta ancora profondamente attuale. “Scacco Pazzo” rimane attaccato per molto tempo anche dopo la sua conclusione. E’ una ferita aperta, che lo spettatore non può fare a meno di tormentarsi.