Sergio, il re Leone

Sergio Leone in 7 film, ha dotato il cinema italiano dell’ultimo registro mancante: l’epica

Arizona. Tre loschi figuri prendono possesso di in una stazione ferroviaria in mezzo al nulla, in attesa di fare la festa a uno straniero in arrivo, che ovviamente li stenderà tutti.

C'era una volta il West inizioSergio Leone vorrebbe che, nel prologo di “C’era una volta il West” (1968), i tre desperados impallinati da Charles Bronson fossero Clint Eastwood, Eli Wallach e Lee Van Cleef. Non se ne farà nulla, perché il primo, desideroso di smarcarsi dallo “Spaghetti Western”, rifiuta, mentre gli altri due accetterebbero con entusiasmo.

Cadendo all’inizio del nuovo film, i tre protagonisti de “Il buono, il brutto, il cattivo”, avrebbero incarnato perfettamente l’idea di una “staffetta narrativa”, il passaggio di testimone da un West ancora sconfinato, in cui i pistoleri solitari la fanno da padroni, a una Nuova Frontiera in cui questi lottano per sopravvivere, incalzati e recintati dal progresso, dalla ferrovia e dai conti in banca dei capitalisti della East coast. Il passato che tenta inutilmente di combattere il presente.

foto 2Il concetto chiave nel cinema di Leone è il tempo: ci sono sempre due storie, una che si svolge, l’altra che viene rievocata, in un crocevia permanente. Se c’è un oggetto simbolo della filmografia leoniana, è l’orologio: il carillon di “Per qualche dollaro in più”, l’orologio dipinto senza lancette in “C’era una volta il West”; quello da taschino che farà diventare amici Noodles e Max in “C’era una volta in America”. Ma pensiamo anche, in “C’era una volta il West”, alla corsa contro il tempo di Gabriele Ferzetti che, gravemente ammalato, vuole vedere conclusa la sua opera prima di morire; o anche all’importanza di saper calcolare i tempi per maneggiare la dinamite in “Giù la testa”. In questo balletto temporale continuo tra presente, passato e trapassato, spesso i fantasmi sono un passo avanti ai vivi, ne condizionano l’agire, quasi li guidano. Giocare con il tempo significa anche giocare con “i tempi” cinematografici: Leone ama esasperare le attese e le pause ma imprime anche improvvise accelerazioni alle storie e alle vite dei suoi personaggi. La presunta lentezza di alcuni suoi film è un luogo comune.

Sergio Leone se n’è andato un quarto di secolo fa, troppo presto, il 30 aprile 1989. Sarà difficile, ma qui cercheremo di non parlare della coppia Leone-Eastwood e dei suoi film, il tema merita una trattazione a parte. Concentriamoci sul regista prima e dopo la consacrazione.

con Morricone (a destra) in 3° elementare 1937
con Morricone (a destra) in 3° elementare 1937

Nasce a Roma, il 3 gennaio 1929. Il padre Vincenzo, in arte Roberto Roberti, viene da una famiglia di ricchi proprietari terrieri campani ed è uno dei più importanti “direttori” del cinema muto, regista di fiducia della diva Francesca Bertini; sua madre, Edvige “Bice” Valcarenghi, friulana, è attrice teatrale. Nato nel rione Trevi, il bambino Sergio, figlio unico, cresce a Trastevere, in Via Filippo Casini. Negli anni ’30, il rione è un’ex-borgata in cui convivono classi sociali diverse. I ragazzi trascorrono tutto il tempo libero dallo studio in strada, il ritrovo per eccellenza è la scalinata di Viale Glorioso. Ci si divide in innocue bande, si leggono fumetti americani, si gioca a pallone (lui sempre con un’inconfondibile maglia verde che gli vale il soprannome di “Brazil”). I passatempi preferiti di Sergio e dei suoi amici, tra cui il compagno di classe Ennio Morricone, sono i burattini del Gianicolo e, naturalmente, andare al cinema. Non necessariamente per seguire il film, a volte solo per fare casino. Si appassiona a Chaplin, maestro nella mescolanza tra comico e tragico, e a Lubitsch, il re della commedia sofisticata. Tra i suoi film preferiti c’è anche “L’ora che uccide” (1936), in cui un assassino lancia un coltello al rintocco di un orologio. L’ossessione filmica per il tempo passa anche da qui.

L’infanzia ha un peso determinante nella sua formazione stilistica. La banda di ragazzini  di Trastevere è (attività criminali a parte) quella di Max e Noodles nell’East Side di “C’era una volta in America”. La violenza ironicamente truculenta dei suoi western è quella dei giochi tra “cow-boy e indiani”, con spari esagerati e facce palesemente prese dalla periferia romana.

Il colosso di Rodi 1961Gli anni ’30 sono un momento di svolta per la Settima arte in tutto il mondo, con la diffusione del sonoro. Ma sono anche un momento delicato per il cinema italiano. Si sa per certo che i criteri non potranno più essere quelli del periodo del muto, grandi divi che recitano sostanzialmente monopolizzando la cinepresa, ma non si sa ancora che cosa possa venire dopo. Nel 1930, Vincenzo Leone coglie il primo insuccesso della sua carriera, con una versione del celebre dramma “Assunta Spina” giudicata troppo “modernista”. Anche questa sospensione tra presente e futuro respirata nel cinema dell’infanzia influirà sullo stile leoniano: coniugare la capacità espressiva del muto con il dettaglio e la potenza drammatica di quello che si chiamerà Neorealismo.

In Ladri di biciclette (a sinistra)
In Ladri di biciclette (a sinistra)

Nel 1946 il giovane Sergio è assistente di Vittorio De Sica. In “Ladri di biciclette” è uno dei due preti tedeschi che assistono al furto subito da Lamberto Maggiorani. I primi passi nella regia sono nel genere “peplum”, che va per la maggiore sia a Cinecittà che a Hollywood. Nel 1959 è tra i registi di 2° unità di “Ben Hur”. Esordisce ufficialmente alla regia nel 1961 con “Il colosso di Rodi”. Niente gesta di Sansone o Ercole, ma una serrata vicenda di spionaggio. Il protagonista John Derek si dà troppe arie da divo. Leone, 31 anni, lo caccia e lo sostituisce con Rory Calhoun. In seguito, Robert Aldrich lo chiama come co-regista in “Sodoma e Gomorra”.

I trionfi della “Trilogia del dollaro” sono storia. “C’era una volta il West” si gira tra Cinecittà, la Spagna, lo Utah e il Nevada. Il soggetto è scritto con Dario Argento e Bernardo Bertolucci, la sceneggiatura con Sergio Donati. La trama punta sui personaggi più stereotipati del western per costruire un monumento al Mito scomparso della Grande Frontiera. Claudia Cardinale dà vita all’unico grande personaggio femminile del cinema leoniano. Charles Bronson e Henry Fonda ci sono entrambi, quasi a voler fare ammenda per aver rifiutato “Per un pugno di dollari”. Soprattutto il secondo, simbolo in tanti film dell’America integerrima, qui viene sottoposto a trattamento shock e trasformato in un bandito efferato, assassino di un bambino. Quando sul set arriva la notizia dell’uccisione di Bob Kennedy, Jason Robards crolla in un pianto disperato. Le riprese vengono sospese per un giorno.

con Rod Steiger
con Rod Steiger

Come film successivo, Sergio deve rinunciare a un progetto che gli sta molto a cuore, “Il mio nome è Nessuno”, per dedicarsi controvoglia a “Giù la testa”, di cui voleva essere solo produttore. Per dirigere il film sulla rivoluzione messicana, con James Coburn, Rod Steiger e Romolo Valli, Leone era orgoglioso di aver ingaggiato Sam Peckinpah. Ma all’ultimo momento, il regista californiano si tira indietro, dissuaso da Clint Eastwood che lo avvisa che, tra lui e Leone, sarebbe lo scontro di due pessimi caratteri. “Nessuno” sarà diretto da Tonino Valerii. Come ripicca, nella ripresa di un cimitero, su una lapide, campeggia il nome “Sam Peckinpah”. “Giù la testa”, che si apre con una citazione di Mao Tse Tung, non amalgama benissimo il suo lato “politico” con i temi leoniani classici. Le dinamiche degli incontri e scontri tra i protagonisti, a tratti, sembrano un “Il buono, il brutto, il cattivo” in versione rivoluzionaria.

Nello stesso periodo, Leone rifiuta di dirigere “Il Padrino”. Ha in mente un film di gangster fin dal 1967 ma non è una storia di boss. E’ l’adattamento di “The Hoods” (in Italia “Mano armata”), uscito nel 1953, romanzo autobiografico di Harry Grey, ex-gangster di mezza tacca che il regista incontrerà più volte. Il cinema fino ad allora si è sempre concentrato sui “big” del crimine. Leone ama questo progetto perché invece parla di criminali da quattro soldi. Se fosse uscito al momento della sua ideazione, fine anni ’60, potremmo definirlo anticipatore di molti temi cari a Martin Scorsese. Inoltre, “The Hoods” racconta un ambiente mai esplorato prima da Hollywood: quello della malavita ebraica. Un tema evitato durante gli anni d’oro del cinema gangsteristico, gli anni ’30, per non offrire il fianco alla propaganda nazista. Grey è il “Noodles” di Robert De Niro; “C’era una volta in America” vedrà la luce nel 1984. Non fa in tempo ad esserci John Belushi, nel ruolo di “Fat Moe”.

con Carlo Verdone e Mario Brega
con Carlo Verdone e Mario Brega

Sergio Leone se ne va a 60 anni, mentre sta concludendo un accordo su una co-produzione Italia-Usa-Urss per un kolossal sull’assedio di Leningrado, con Mickey Rourke. Sa che la produzione durerà in tutto almeno tre anni. Per il dopo, immagina un western, per il quale fa il nome di Richard Gere. La filmografia di questo straordinario cineasta finisce per contare ufficialmente solo 7 film da regista. Più altri 7 da produttore, tra cui gli esordi dell’allievo prediletto Carlo Verdone. Più l’influenza incalcolabile su tutto il cinema successivo, di un autore capace di dotare il cinema italiano dell’ultimo registro mancante: l’epica.

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