Stanley Kubrick: lo sguardo sulla fine del mondo

Il 7 marzo del 1999 moriva il regista newyorkese Kubrick. Nessun altro, prima o dopo di lui, neppure i suoi maestri, ha mai saputo eguagliare il suo occhio gelido, distaccato. 

Kubrick Sellers
Kubrick Sellers

Nella scena iniziale (che sarebbe quella finale) di “Lolita”, James Mason-Humbert penetra nella villa di Peter Sellers-Quilty per ucciderlo. Non sa che faccia abbia. Se lo trova davanti, ubriaco fradicio, con addosso la federa di una poltrona, a mo’ di toga. “È lei Quilty?” “No, io sono Spartacus! È venuto a liberare gli schiavi?”. In “Paura e desiderio”, una pattuglia di soldati di un imprecisato esercito si muove alla ricerca dei nemici, quando li trova, hanno la loro stessa faccia. Non sempre il nemico è “altro da te”. Ne sanno qualcosa i soldati francesi di “Orizzonti di gloria”, il cui generale ordina all’artiglieria di aprire il fuoco sulle loro trincee, e gli aviatori americani de “Il dottor Stranamore”, il cui presidente fornisce ai sovietici le coordinate per abbatterli. Il finale di “Stranamore” distrugge il pianeta, l’inizio di “2001: Odissea nello spazio” lo fa rinascere. “Odissea” si chiude con il primo piano dell’astronauta Keir Dullea, “rigenerato” sotto forma di nascituro, al termine (all’inizio?) del suo viaggio nell’infinito; si apre con analogo primo piano di Malcolm McDowell “Arancia meccanica”: la rigenerazione dell’umanità ha prodotto le gesta di Alex DeLarge. Infatti, quando il protagonista sfodera il coltello nella lotta contro i suoi “drughi”, è inquadrato dal basso verso l’alto, come l’ominide preistorico che scopre di poter usare un osso animale come arma, all’inizio di “Odissea”. L’inquadratura onirico-erotica che chiude “Arancia meccanica” preannuncia l’ambientazione settecentesca di “Barry Lyndon”, il cui finale funebre inizia a far materializzare i fantasmi di “Shining”. “Shining” si chiude sulle note di un’ironica musica “lounge” che suggella la fine del viaggio nell’orrore di Jack Torrence; con una musica analogamente distesa e ironica si apre il viaggio nell’orrore successivo, quello di “Full Metal Jacket”. E così via.

Il cinema di Stanley Kubrick è così: un universo a sé, autonomo, autosufficiente, governato da leggi proprie. Il tratto distintivo dell’autore newyorkese scomparso 15 anni fa, il 7 marzo 1999, è uno sguardo cinematografico perfettamente nitido, mai opaco, tagliente come una lama di rasoio, che analizza con rigore e precisione scientifica un mondo sempre sul punto di sprofondare o di esplodere. Nessun regista, prima o dopo di lui, neppure i suoi maestri, ha mai saputo eguagliare il suo occhio gelido, distaccato. È l’occhio elettronico di HAL 9000 (HAL, le lettere dell’alfabeto che precedono IBM), il computer di “Odissea” che arriva a uccidere per istinto di sopravvivenza. Un occhio che, di fronte all’approssimarsi della fine, sembra appannarsi di pianto.

Kubrick Nicholson
Kubrick Nicholson

L’intuizione fondamentale di Kubrick è quella di rovesciare la lezione del cinema espressionista tedesco (Stanley è di origini austriache): l’orrore, la mostruosità, non si rappresentano tramite inquadrature distorte, sghembe, buie, nebbiose ma, al contrario, tramite immagini costruite geometricamente con rigore scientifico, simmetria, luce, in non si possa trovare il minimo nascondiglio. Innumerevoli, nella sua filmografia, sono i riferimenti al ‘700, l’epoca dei “Lumi” e del trionfo della “Ragione”: oltre a “Barry Lyndon”, il salone della corte marziale di “Orizzonti di gloria”, il teatro in cui i drughi si scontrano con Billy Boy in “Arancia meccanica”; il dipinto crivellato di colpi di “Lolita”, la stanza da letto di “Odissea nello spazio”, ecc. Tutto il cinema di Kubrick gioca continuamente con il pensiero (in “Shining”, Danny sul triciclo si aggira palesemente per un labirinto mentale, i neuroni disegnati sulla moquette lo dimostrano), con lo spazio (i discorsi alternati di Kirk Douglas e Lawrence Olivier, ognuno alle proprie truppe, in “Spartacus”) e con il tempo (la struttura a flashback di “Lolita” e “Rapina a mano armata”, con oltre 30 anni di anticipo su Quentin Tarantino).

La destrutturazione della triade spazio-pensiero-tempo combacia soprattutto con i suoi tre attori simbolo: Peter Sellers, Malcolm McDowell, Jack Nicholson. In “Lolita” e, soprattutto, “Stranamore”, Sellers è un personaggio multiforme. Nel primo film aleggia come un fantasma, materializzandosi in posti diversi sotto forme diverse; nel secondo i suoi personaggi si combinano in un mix esplosivo che distrugge il mondo.

Kubrick Mc Dowell
Kubrick Mc Dowell

McDowell è l’attore che forse riesce a raggiungere più di altri un livello di complicità creativa con Kubrick; in “Arancia meccanica”, il teppista Alex si sottopone volontariamente ad una sperimentazione che lo rende incapace di pensare azioni violente. Il sistema si incaricherà poi di invertire gli effetti della “cura” e di convogliare la sua violenza individuale al servizio del sistema stesso, arruolandolo tra le fila della repressione.

 

In “Shining”, Jack Nicholson, scrittore fallito che accetta di fare il custode invernale dell’Overlook Hotel, costruito su un cimitero indiano, e viene risucchiato in una spirale infernale. Sconfitto dai poteri paranormali di suo figlio (Danny Lloyd) e dalla determinazione di sua moglie (Shelley Duvall), entra nel pantheon di spettri che lo popolano. Oppure ne ha sempre fatto parte?

Kubrick morte Roosevelt 1945Nato a New York il 26 luglio 1928 da una famiglia ebraica di origini mitteleuropee, padre medico, a scuola riesce bene solo nelle materie scientifiche, ama gli scacchi, il jazz e, moltissimo, la fotografia. Ci sono cineasti che arrivano alla regia attraverso la recitazione, altri attraverso la scrittura. La porta di Kubrick è la costruzione visiva, e si vede. Nell’aprile 1945, mentre sta andando a scuola, Stan immortala con un clic il volto triste di un giornalaio accanto alla locandina che annuncia la morte del presidente Roosevelt. Vende la foto per 25 dollari alla rivista “Look” e poco dopo viene assunto. La sua passione per l’immagine statica si integra gradualmente con quella per l’immagine in movimento. Tutte le sue passioni si sublimano in quella, definitiva, per il cinema. I suoi punti di riferimento sono Charlie Chaplin, Orson Welles, Federico Fellini, John Houston, Ingmar Bergman e Max Ophüls. Tutti autori che hanno posto la massima attenzione sull’innovazione visiva.

Stanley-KubrickNel 1949 esordisce come documentarista, insieme al compagno di scuola Alexander Singer (anch’egli futuro regista) con il cortometraggio autoprodotto “Day of the Fight”, dedicato al campione di pugilato Walter Cartier. La carriera di Kubrick si avvia sulla strada della produzione indipendente. “Paura e desiderio” (1952), “Il bacio dell’assassino” (1955), “Rapina a mano armata” (1956) sono distribuiti da grandi compagnie ma autoprodotti. Nel 1957 l’incontro con Kirk Douglas, che sarà interprete e co-produttore di “Orizzonti di gloria”. Nel 1960 è proprio lui a imprimere una svolta alla carriera di Kubrick: lo chiama a sostituire Anthony Mann alla regia di “Spartacus”. Cast stellare: Kirk Douglas (che è anche produttore esecutivo), Lawrence Olivier, Jean Simmons, Charles Laughton, Peter Ustinov (Oscar come miglior attore non protagonista), John Gavin (reduce dal trionfo di Psycho), Tony Curtis, Woody Strode, Herbert Lom. Con i suoi 12 milioni di dollari di budget, la più costosa produzione mai realizzata prima interamente ad Hollywood (“Ben Hur” è costato 15 milioni ma è stato girato in Italia). È l’unico film che Kubrick ripudierà, perché, ad una produzione così colossale, non riesce fino in fondo ad imprimere la propria impronta strettamente personale. Del giovane director, Kirk Douglas dirà: “Un giorno diventerà un bravo regista, ma per questo avrebbe bisogno di una bella batosta. Potrebbe insegnargli l’arte del compromesso”. Non la imparerà mai, neppure quando la batosta arriverà, con il clamoroso fiasco al botteghino del pur bellissimo “Barry Lyndon”.

Il finale di carriera non è all’altezza. “Full metal jacket” viene ricordato solo per le trafile di parolacce e tic vari, sintomo evidente che il film non coglie affatto nel segno. “Eyes wide shut” è al di sotto di ogni sospetto quanto a sfruttamento dell’apice di popolarità degli allora coniugi Nicole Kidman e Tom Cruise.

Resta comunque l’eredità di uno dei più grandi cineasti di tutti i tempi, forse il più eclettico tra i massimi registi della storia, che, spaziando tra i generi più disparati, è sempre rimasto fedele alla sua regola: “Quello che vorrei davvero è far esplodere la struttura narrativa del film. Qualcosa che faccia tremare la terra”. Obiettivo raggiunto.

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