Italiani di Crimea: storia di una comunità dimenticata

Il 18 maggio in Crimea è ufficialmente il giorno della memoria, che ricorda le vittime delle varie deportazioni avvenute il secolo scorso. Ma solo a cinque popoli spetta questo riconoscimento: tatari, tedeschi, armeni, bulgari e greci.

Nessun riferimento invece agli italiani che nel 1942 furono costretti ad abbandonare la penisola, venendo deportati in Kazakistan. Per decenni la comunità è stata totalmente abbandonata a se stessa da parte delle nostre autorità consolari. Oggi comincia però a riaffiorare la verità, nella speranza che l’attuale annessione della Crimea alla Russia non vanifichi gli sforzi operati finora da parte di questa piccola minoranza, che non vuole rinunciare alla propria identità.

La storia della comunità italiana in Crimea ebbe inizio nel 1830, quando gruppi di pugliesi provenienti da Bari, Bisceglie, Molfetta e Trani, ma anche napoletani e genovesi, di fatto ancora non italiani, partirono con l’idea di stanziarsi in questa parte dell’Impero russo, dopo essere venuti a conoscenza della fertilità delle sue terre e della pescosità del suo mare, sfruttabili in condizioni più favorevoli rispetto a quelle della madrepatria. Non emigrarono solo agricoltori con le loro famiglie, ma anche muratori ed architetti, figure necessarie al fine di edificare le zone interessate. Gli italiani si inserirono nel tessuto sociale locale senza troppi problemi. In poco tempo diedero vita ad una comunità fiorente e rispettata, costituita da piccoli imprenditori e liberi professionisti. Per il professor Giulio Vignoli, massimo esperto di minoranze italiane nell’est europeo, all’inizio del Novecento, nella provincia di Kerch, una cittadina situata tra il Mar d’Azov e il Mar Nero, gli italiani rappresentavano il 2% della popolazione. Altri erano a Feodosia, l’antica Caffa, in passato colonia genovese e a Simferopoli, per un totale di circa 5000 persone, anche se non si conosce con esattezza il numero.

Tutto procedette regolarmente fino all’arrivo del comunismo. La collettivizzazione forzata delle terre privò infatti gli italiani dei loro beni, depauperando i componenti della comunità e mettendo fine a quell’esperimento di convivenza felice all’interno dell’impero, che nemmeno la Guerra di Crimea del 1854/56 aveva inficiato, sebbene proprio un contingente militare piemontese avesse partecipato al conflitto, a fianco dell’esercito anglo-francese, dichiarando di fatto guerra alla Russia. Secondo alcune notizie disponibili nel sito del Movimento Irredentista Italiano: “La comunità venne posta sotto la supervisione di emigrati italiani antifascisti che cercarono riparo in Unione Sovietica, segnando l’inizio delle repressioni e delle persecuzioni. Su iniziativa degli antifascisti italiani venne subito chiusa la Chiesa, con l’accusa di propaganda antisovietica da parte del parroco, costretto a rimpatriare. La collettivizzazione dei mezzi di produzione e delle campagne, imposta dalla politica comunista, obbligò gli italiani a creare un kolchoz, intitolato a Sacco e Vanzetti. La pena comminata a chi si opponeva alla collaborazione al progetto era l’espropriazione di tutti gli averi ed il rimpatrio forzato”.

ITALIANI DI CRIMEA STUDIANO ITALIANOAlla fine degli anni Trenta, alcuni di questi italiani decisero di tornare in Italia, tra le mille difficoltà immaginabili che un tale tipo di rientro poteva comportare. Le famiglie che riuscirono ad espatriare, raggiunsero proprio la città di Trieste, dove si stabilirono e dove ancora oggi vivono i discendenti. La sorte peggiore toccò però a quelli che rimasero in Crimea. Per il solo fatto di essere italiani e con l’accusa di collaborazionismo con la Germania nazista, il 29 gennaio del 1942, in pieno inverno, furono rastrellati  tutti, dai bambini agli anziani, per essere deportati nelle steppe del Kazakistan, destinati ai campi di lavoro forzato, anche come ritorsione nei confronti dell’invasione dell’Unione Sovietica da parte  L’ARMIR (L’Armata Italiana in Russia). Venne permesso loro di portare via solo un sacco di oggetti propri che non doveva superare gli 8 chili di peso. Gli esiliati passarono dalle sopportabili temperature invernali della Crimea a quelle gelide dell’Asia Centrale. Dei circa 2000 che partirono, in pochi sopravvissero allo sterminio, che colpì molti di loro ancor prima di giungere a destinazione. Per Natale De Martino, uno dei  sopravvissuti, “fu la deportazione più crudele”, perché “si moriva di freddo, di fame, di stenti».

Nel dopoguerra circa 300 superstiti tornarono a Kerch, ma la situazione per questi ultimi era tutt’altro che favorevole: senza soldi, senza casa, senza lavoro e senza documenti, preferirono nascondere la loro origine, per paura di essere nuovamente penalizzati e additati come traditori,  restando di fatto ignorati anche dal nostro Paese. In epoca  gorbacioviana presero coraggio scrivendo tanto all’ambasciata italiana a Mosca, quanto a quella di Kiev, dopo che l’Ucraina divenne indipendente. Ma inizialmente non ricevettero risposta. Successivamente, tale risposta giunse dalle nostre autorità consolari, che però richiedevano ai sopravvissuti di fornire documenti che attestassero quanto dichiarato ai fini del riconoscimento dello status di deportati. Fatto impossibile, considerando che al momento della deportazione ne furono privati. Perciò, pur avendo nomi e cognomi palesemente italiani, non poterono dimostrare quanto richiesto. Mai nessun passo ufficiale è stato mosso dalle nostre autorità affinché i superstiti ottenessero dei minimi vantaggi economici come risarcimento per ciò che era ingiustamente avvenuto, oltre ad un eventuale conferimento della cittadinanza italiana.

CERKIO CRIMEADa anni i componenti della piccola comunità chiedono di poter ripristinare quel cordone ombelicale con le proprie origini, che in passato è stato staccato forzatamente. Ma è anche la fame di cultura italiana che spinge gli eredi dei deportati a pretendere di essere riconosciuti, non solo i motivi burocratici. Nonostante i decenni di abbandono, dal 2008 è nata a Kerch l’Associazione CERKIO (Comunità degli Emigrati nella Regione di Kerch – Italiani di Origine), il cui fine è quello di mantenere ancora vivo lo studio della lingua e delle tradizioni italiane in Crimea. “Noi non perdiamo la speranza, impariamo diligentemente l’italiano e, con l’aiuto di Dio, lavoriamo insieme per rendere eterna la memoria delle vittime”, queste le parole di Giulia Giacchetti Boico, italiana di Crimea, figlia di una deportata, nonché Presidentessa di CERKIO.

italiani di crimeaOggi sono rimasti in 500 e non sappiamo quali saranno i loro nuovi rapporti con Mosca, giacché le loro sorti non dipendono più da Kiev. “La diaspora italiana non ha nulla da temere. Sotto Mosca verrà rispettata e vogliamo stringere rapporti con Bari da dove sono arrivati tanti vostri connazionali”, così si è espresso il sindaco di Kerch, Oleg Vladimirovich, secondo quanto riportato da Fausto Biloslavo, in un articolo su Il Giornale,  pubblicato venerdì 14 marzo 2014. Per anni questi italiani hanno rappresentato una spina nel fianco di chi non ha voluto dar loro voce. Non è difficile ipotizzare qualche possibile ragione politica, calcolando che nel dopoguerra una storia di questo tipo avrebbe probabilmente messo in crisi i rapporti tra il Partito comunista italiano e l’Unione Sovietica. Approfittando del fatto che i media di tutto il mondo sono attualmente focalizzati sulla questione dell’annessione della Crimea alla Russia, cogliamo l’occasione per non dimenticare le rivendicazioni di una piccola minoranza italiana, che non vuole in nessun modo rinunciare alla memoria del suo passato.

A cura di Silvia Di Pasquale.

Tag

  • cerkio
  • crimea
  • italiani di crimea

Potrebbe interessarti: