Luciano Salce: “La corazzata Potëmkin” è un capolavoro pazzesco

luciano salce

“Il federale”, “Il prof. dott. Guido Tersilli…”, “Fantozzi”, “Vieni avanti cretino”. Basterebbero questi pochi titoli per meravigliarsi di quanto poco sia ricordato Luciano Salce

Regista, attore, commediografo, conduttore tv e radio, cabarettista, traduttore. Probabilmente è stata proprio questa sua personalità artistica multiforme a non farlo mai prendere sul serio dalla critica, a farlo considerare un personaggio consumistico. E, per far storcere il naso all’intellighenzia, Luciano Salce ci mette del suo.

E’ bene specificarlo, anche se ovvio: “La corazzata Potëmkin”, diretto nel 1925 da Sergej M. Ejzenstejn, è un capolavoro assoluto, irrinunciabile per chiunque voglia capire cos’è il montaggio cinematografico, dalla durata inoltre niente affatto proibitiva di 75 minuti scarsi.

Ma l’urlo furioso di Paolo Villaggio nel cineforum del mega-direttore ha un suo ruolo nell’ecosistema del cinema italiano. E’ un atto estremo di protesta verso il conformismo culturale e politico che domina negli anni ’70. Ed è l’ennesima, riuscitissima provocazione del regista.

Quando esce il secondo Fantozzi, tutti si chiedono come abbia fatto Salce a ottenere dall’ambasciata sovietica il permesso di usare la pellicola originale di 50 anni prima, in piena Guerra fredda, tra l’altro. Non è l’originale, l’ha rigirata lui a Villa Borghese, invecchiandola con l’aiuto del montatore Antonio Siciliano e del direttore della fotografia Enrico Menczer. Anche dal punto di vista tecnico, Luciano sa davvero il fatto suo.

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Nel 2009, il figlio Emanuele realizza, con Andrea Pergolari,  il documentario “L’uomo dalla bocca storta”. Ne emerge il ritratto di un artista poliedrico che usa l’umorismo corrosivo, la satira, lo sberleffo per mascherare ed esorcizzare la propria timidezza ed una forte sensibilità. La vita gli riserva da subito dure prove. Nasce a Roma il 25 settembre 1922, sua madre muore pochi giorni dopo averlo messo al mondo. Cresce in collegio a Frascati, dove sviluppa una forte passione (e un grande talento) per il teatro. Frequenta l’Accademia d’Arte Drammatica. Vivendo fuori casa dall’infanzia, non avrà mai un vero rapporto nemmeno con il padre.

Nel ’43 è di leva, dopo l’8 settembre viene deportato in Germania. Ha in bocca una protesi d’oro, conseguenza di un incidente d’auto. I carcerieri gliela strappano via, lasciandolo con il perenne ghigno sbilenco che diventerà la sua maschera. Nel ‘44 evade ma viene ripreso e punito con quaranta giorni a Dachau, nel settore dei detenuti comuni russi. Per quaranta giorni viene sistematicamente derubato anche del misero rancio. E’ più morto che vivo quando torna tra i prigionieri italiani, che riescono incredibilmente a procurarsi del burro per rianimarlo.

Tutte queste sofferenze ed amarezze, come a volte accade, gli regalano un senso dell’umorismo incrollabile. Dopo la guerra si esibisce come comico nel locale romano “L’Arlecchino”. Fonda il gruppo teatrale “I Gobbi”, con Vittorio Caprioli, Alberto Bonucci, Franca Valeri. Viaggia per tutta l’Europa in tournée con la compagnia dell’amico Vittorio Gassman.

Nel 1950 raggiunge in Brasile un altro grande amico, Adolfo Celi, e insieme fondano la compagnia “Teatro Brasileiro de Comédia”. E’ lì che esordisce alla regia, teatrale e cinematografica. Gli anni all’estero, in Brasile diventa famosissimo, gli infondono un’idea del cinema particolare, da “factotum”. I registi italiani lottano per affermare il cinema come realtà autonoma rispetto al teatro. Salce si fa forte della sua esperienza teatrale, la esibisce e la valorizza. Il suo primo film dopo il ritorno in patria, “Le pillole di Ercole” (1960), è tratto da una “pochade”.

Gira in modo semplice e rapido. Dirige gli attori con discrezione e con pochi consigli essenziali. Dimostra grande perizia nella scelta del cast tecnico. E’ lui a lanciare Ennio Morricone come autore di colonne sonore, con “Il federale” (1961), film che fa esordire Stefania Sandrelli e regala a Ugo Tognazzi uno dei ruoli della vita.

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Con “La voglia matta” (1962) dirige ancora Tognazzi, nella parte di un industriale 40enne che si invaghisce di un’adolescente e ha la pessima idea di aggregarsi per una gita a un gruppo di coetanei di lei. Scritto da Castellano e Pipolo, che poi imboccheranno una via molto meno sofisticata, il film lancia una giovanissima Catherine Spaak e una nuova idea di icona femminile sullo schermo.

Il cinema italiano tende a preferire soggetti e personaggi “del popolo”. Salce dà il meglio di sé descrivendo vizi e ansie della nuova borghesia in ascesa con il boom economico. Un’intuizione che avrà anche l’Alberto Sordi regista, ma senza la forza necessaria. L’unico incontro sullo schermo con Albertone è nel 1969, con “Il prof. dott. Guido Tersilli, primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue” satira caustica del mondo della sanità e sequel, meno politico e più di costume, de “Il medico della mutua”, diretto un anno prima da Luigi Zampa.

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E’ politico eccome “Colpo di Stato” (1969), in cui il Pci scopre di aver vinto le elezioni ma fa truccare i risultati per non andare al governo. Tuttora forse l’unico film italiano completamente invisibile sugli schermi.

Non smette mai di lavorare in tv, ad esempio con “Studio 1” e in radio, con “Formula Uno”, dove inventa la rubrica della “Schif Parade”, anticipando stili e idee che ispireranno l’epopea radiofonica di Renzo Arbore.

Nel 1970 dirige e interpreta “Basta guardarla”, parodia autobiografica del mondo dell’avanspettacolo. Il film è un clamoroso e immeritato insuccesso, nonostante sembri “ispirare” abbastanza Robert Altman per il suo “Nashville” (1975).

Così come anticipa ritmi e tecniche della comicità dei fratelli Zucker portando sullo schermo Fantozzi nel ’75 (è di Salce l’idea di far interpretare la figlia Mariangela a un uomo, Plinio Fernando, semplicemente perfetto) e con Lino Banfi in “Vieni avanti cretino” (1982). Tutti enormi successi.

140581b_Luciano-Salce-lp-visoreLuciano Salce si spegne prematuramente a Roma il 17 dicembre 1989. Il suo “manifesto” può essere considerato la raccolta di racconti del 1981 “Cattivi soggetti”, titolo ironicamente inteso come idee cinematografiche da scartare ma anche come personaggi poco raccomandabili, con cui debutta come scrittore “vero”. “Dico vero perché scrivere ho sempre scritto, per il cinema si scrive molto e non sempre male. Per un film che si realizza, due vanno a buca. E un film vuol dire soggetto, trattamento, sceneggiatura, i rifacimenti; quando poi non si butta tutto e si ricomincia da capo… diciamo mediamente quattrocento pagine, che moltiplicate per trentadue [film] farebbero… e i cinquanta e passa progetti andati in fumo… E i programmi televisivi, la radio… E tre commedie scritte, due rappresentate… Qualcosa come Balzac più Lope de la Vega. Ma ogni tanto incontri l’amico che ti rimprovera: ma tu, perché non scrivi?”. 92 minuti di applausi.

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