Scorci di Irlanda autobiografica dagli occhi del volontario

Scorci di Irlanda autobiografica dagli occhi del volontario

Dopo aver accennato all’innovazione che Workaway introduce nel mondo del volontariato, ecco il racconto di quando ho deciso di partire per andare in Irlanda a lavorare in un ostello.

a cura di Serena Ruggiero

Mi sono iscritta a Workaway in una domenica di novembre e, venti giorni dopo, ero in volo verso Dublino, per raggiungere un ostello nella parte occidentale dell’ Irlanda, accanto al mare. Giungo a destinazione seguendo le indicazioni che gli host mi hanno gentilmente inoltrato nelle mail che ci siamo scambiati. Dopo aver conosciuto i miei colleghi, dopo aver ricevuto le mie lenzuola e occupato uno spazio della dispensa comune, mi accomodo sul mio nuovo letto avvertendo il cambiamento. L’emotività mi fa notare la sua presenza in modo discreto, offrendomi un po’ di domande in fila indiana: Cosa ho fatto? Cosa farei a Roma adesso? Cosa farò qui?

Tra lavoro..

Scorci di Irlanda autobiografica dagli occhi del volontarioEcco cosa ho fatto. Il workawayer di un ostello può occuparsi della reception (una sorta di mansione “upgrade” per chi è lì da tanto tempo o mastica un buon inglese) oppure dell’organizzazione e della gestione delle attività domestiche. Ci si ritrova, insieme con altri giovani colleghi provenienti dai diversi continenti, a pulire gli spazi comuni, costretti ad imparare a dire “copricuscino” in inglese, per girare nella struttura con un grosso carrello della spesa pieno di biancheria divisa per tipo di destinazione (stanza da letto, bagno, cucina). È capitato di montare letti a castello nuovi, di preparare e servire continental breakfast per gruppi di guests (scout, bikers, walkers) o di svolgere attività di gardening nell’area esterna. Io, ad esempio, ho anche imbiancato un bagno con la mia collega americana.

La giornata lavorativa in Irlanda ha inizio intorno alle dieci, dopo un’abbondante colazione (nel mio caso offerta dall’ostello) e termina per l’ora di pranzo. Ci si concede, così, un meritato lungo pomeriggio da dedicare ad attività diverse: allo Knockree  Hostel c’è una tv room per rilassarsi guardando dei DVD, una sala giochi col ping pong o una hall molto accogliente, nella quale un mio collega tedesco ha visto tutto “Breaking Bad” sfruttando il Wi-fi e le poltrone comode.

In questo periodo in Irlanda ho trascorso diversi pomeriggi a leggere, scrivere e ascoltare tanta musica in cuffia ma, ciò che ho amato di più, è stato sicuramente esplorare, incuriosita e stimolata dai paesaggi che mi circondavano. L’ostello è infatti posizionato sul Wicklow Way, un cammino di circa 131 km, a due passi dal Wicklow Mountains National Park, dove ho fatto diversi trekking piacevoli che mi hanno regalato panorami meravigliosi tra montagna e mare.

Wicklow way
Wicklow way

… e tempo libero

La tabella di lavoro settimanale era presentata allo staff con largo anticipo e garantiva a tutti (a turno) due giorni liberi. Essendo volontaria in un ostello appartenente a una catena irlandese, ho potuto spostarmi a Dublino pernottando gratuitamente (con tanto di colazione inclusa) al Dublin International Hostel, distante dieci minuti a piedi da O’Connell Street. E’ così che ho visitato la città per ben due volte: terminate le ore di lavoro, dopo circa venti minuti di cammino, raggiungevo la fermata dell’autobus che in un’ora mi avrebbe improvvisamente riportato in città. Con una cartina in tasca e armata di una buona guida (studiata ossessivamente), ho camminato tra i vicoli di Temple Bar, i prati di Trinity College e costeggiato il fiume Liffey (baciata probabilmente dalla “Irish Luck”) durante giornate di sole che non sono tipicamente irlandesi!

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“Partire è anzitutto aprirci agli altri, scoprirli,  farci loro incontro”.

Questo viaggio è stato come un cammino e, chiunque abbia fatto un cammino, può capire cosa intendo dire. L’inizio  insegna molto e pone delle basi indispensabili: la flessibilità, la capacità, i limiti. Prende forma un adattamento graduale, con un certo ritmo che conduce fino al completo assorbimento di tutto ciò che c’è da fare, compresa la consapevolezza di quanto possa offrire quell’avventura. Convivere con persone che non scegli, incontrarne tante, anche solo per una sera, rivela una nuova “anima” dell’ostello che, da non luogo, si mostra come un nido accogliente.

Misurarsi in un modo del genere, rende disponibili all’accoglienza e alla riflessione perché s’impara qualcosa di nuovo (e, in realtà, di straordinariamente normale) sia chiacchierando con lo scout di otto anni, sia con Gino, che a cinquanta anni viveva nell’ostello per motivi di lavoro. Sono trascorsi un po’ di mesi dal mio ritorno e non escludo una nuova partenza: nel mondo c’è sempre posto per chi, volontariamente, si mette a disposizione dell’altro.

Non mi sorprende che sia un’esperienza che molti consigliano di far durare per lunghi periodi (io, purtroppo, ci sono stata solo per tre settimane!) perché è una buona opportunità di invitare se stessi fuori dagli schemi della vita quotidiana metropolitana, di percepirsi in una dimensione nella quale è necessario fare, che regala soddisfazioni semplici e tanta fiducia nella propria persona.

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